Appunti su lavoro e diaconia oggi


Il diaconato in Italia n° 208
(gennaio/febbraio 2018)

EDITORIALE


La scomoda coerenza dell'essere diacono
di Giuseppe Bellia

Può l'affannarsi quotidiano dell'uomo diventare una diaconia? E il servizio ministeriale dei diaconi può essere di conforto per chi lavora? La Scrittura in proposito ci sorprende non poco perché dall'originaria maledizione dell'Eden inflitta al primo uomo fino al peccato collettivo di orgoglio (hybris) di Babele, dove tutta l'umanità era coinvolta in un'opera imperialistica di sfida al Creatore (Gen 11,1-9), il lavoro nella Bibbia è costantemente associato, fin dal principio, al comando di rispettare il riposo del sabato e di osservare i giorni di festa stabiliti.
Lavoro e festa, per quanto possano sembrare situazioni opposte l'uno all'altra, in realtà sono un binomio etico e religioso inscindibile e si presentano come due facce della stessa medaglia. Si accompagnano lungo tutto il percorso biblico-teologico d'Israele in una continuità storico-salvifica che tuttavia non sempre è riconoscibile per la sua linearità o per la sua immediatezza. Su questo i diaconi sono chiamati a dare testimonianze concrete, esemplari e sapienti per dare consolazione a chi nel canone veterotestamentario coglie non pochi salti, alcune incongruenze e apparenti controsensi che richiedono prima di tutto di fare chiarezza su che cosa si debba realisticamente intendere per fatica del lavoro e riposo della festa. Ambedue le realtà si presentano luminose, assertive e tuttavia ambivalenti perché insidiate sia da una pervicace tentazione di autosufficienza idolatrica, sia dall'oblio dimentico della gratuità del riposo divino.

La fatica del lavoro e il riposo della festa
Lavoro e riposo nella Bibbia sono entrambi attribuiti al Creatore e nello stesso tempo sono oggetto di comando divino, di cui l'uomo è stato fatto partecipe per trovar gioia nel tempo santificato da Dio. Si vuole così ricordare al credente che impegno lavorativo e tempi di riposo non sono decisi dall'uomo, dal suo volere o dalle circostanze, ma rispondono a un preciso e magnanimo disegno di Dio. Chiede, infatti, di associare nei tempi di festa e di riposo tutti quelli che si trovano nella "casa", compresi gli animali domestici (cf. Es 20,8-10). E ancora: «Celebrerai la festa delle Capanne per sette giorni, quando raccoglierai il prodotto della tua aia e del tuo torchio. Gioirai in questa tua festa, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita, il forestiero, l'orfano e la vedova che abiteranno le tue città» (Dt 16,13-14). Questi passi danno al comando divino, oltre al realismo sociale del precetto, un valore etico e teologico da scoprire e custodire perché aperto al futuro di Dio, amante della vita e rispettoso della dignità dell'uomo. Prescrizioni che devono essere comprese all'interno dell'alleanza stabilita nel Sinai ma bisognose della luce di un'ulteriore rivelazione, perché lavoro e festa, costantemente riaffermati dalla tradizione profetica e sapienziale, giungono a compimento di senso e di realizzazione solo con Gesù di Nazaret. Scoprire questa verità relazionale che unisce il lavoro a Cristo è il fondamento da cui i diaconi devono partire per testimoniare l'opera liberatrice della grazia. Nell'immaginario comune, fatica e festa sembrano uniti solo da una necessaria scansione spazio-temporale; una catechesi attenta e rigorosa dovrebbe però far cogliere la verità teologica, spesso sottaciuta, di ciò che in Dio unisce lavoro e riposo. All'uomo è affidata un'opera di santificazione, più esattamente un ruolo ministeriale di custode dell'universo creato. In particolare è proprio il kairos, il tempo sottratto al tempo e non il fluire cronologico che consente a festa e lavoro di disporsi in una completezza di eventi e di accadimenti che permettono di conoscere il disegno originario di Dio. Certo, i profeti, con parresìa ispirata e pungente avevano segnalato l'indole regressiva di ogni fatica e impresa umana che spingevano l'istinto idolatrico della natura umana a chiamare e venerare come «dèi il lavoro delle proprie mani» (Sa p 13,10).

Il ripiegarsi della carne
Si deve riconsiderare l'audace accusa profetica (v. Is 44,9-20; Ger 10,1-16 e altri) evitando d'interpretarla come il culto ancestrale reso ai simulacri senza vita creati dall'uomo. L'idolatria non è soltanto una primitiva fase dell'esperienza religiosa umana, quanto piuttosto è un ripiegarsi di uomini e di comunità in cerca di sicurezza, di stabilità, creando una società statica e dispotica verso le categorie più deboli ed esposte. Il successo nel lavoro, se visto come segno di onnipotenza, finisce per sedurre l'uomo illudendolo di potersi fare uguale a Dio. L'idolatria del lavoro facendo perdere la gratuità della festa crea un contesto sociale deprimente e disumano. «Ed era tutta la terra un solo labbro / e una sola parola. / E dissero: "Su! costruiamo per noi una città / e una torre la cui cima sia nei Cieli; / e facciamo per noi un nome, / per non disperderci sulla faccia della terra"». Nella mirabile narrazione del peccato collettivo dell'umanità boriosa e idolatra di Gen 11,1-4 si comprende che a Babele si compiva uno sconvolgimento di ordine morale e sociale che obbligò il vigile demiurgo a intervenire con sollecita premura per impedire un danno irreparabile al suo originario disegno di vita. I diaconi, come i profeti, devono riconoscere che c'è bisogno di un supplemento di rivelazione per comprendere cosa significhi quell'ingresso nel riposo di Dio che la Scrittura d'Israele tramandava come speranza escatologica. Un'attesa viva consegnata a un tempo lontano e indecifrabile che iscrive la piena realizzazione dell'attività lavorativa dell'uomo nel futuro imperscrutabile del riposo di Dio.

Riscoprire la rivelazione
La risposta alla provocazione dei sapienti, come Giobbe e Qoèlet insegnano, non poteva venire dalle limitate possibilità d'immaginazione dell'uomo ma da Dio stesso. E questa rivelazione data in modo definitivo deve essere ogni volta riscoperta. Il senso nascosto di questo paradosso storico-salvifico che allinea senza annullarli lavoro e festa, fatica e riposo, può trovare risposta efficace non nell'utile dottrina ma in quella relazione personale del diacono con Cristo, perfezionatore ultimo dell'ordine della creazione e inizio, centro e fine della realtà e del suo divenire. Come afferma l'autore della Lettera agli Ebrei, in Gesù è fin da ora rivelata una visione unitaria e integrata del lavoro dell'uomo e della sua destinazione al riposo divino: «Si dice infatti in un passo della Scrittura a proposito del settimo giorno: E nel settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere. E ancora in questo passo: Non entreranno nel mio riposo! [...] Se Giosuè infatti li avesse introdotti in quel riposo, Dio non avrebbe parlato, in seguito, di un altro giorno. Dunque, per il popolo di Dio è riservato un riposo sabbatico. Chi infatti è entrato nel riposo di lui, riposa anch'egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie» (Eb 4,4-5.8-10). Nel Figlio fattosi uomo, svuotandosi della sua divinità, divenendo obbediente fino alla morte e alla morte di croce, come si canta nell'antico inno prepaolino (Fil 2,6-11), è smascherata per sempre ogni forma di idolatria del lavoro ed è condannato l'orgoglio con cui l'uomo tenta stoltamente di innalzarsi fino a Dio, illudendosi, ieri come oggi, di non avere limiti alla sua crescente e quasi divinizzante capacità progettuale.

Il diacono quindi è chiamato a realizzare la sua diaconia umana impegnandosi a compiere, con la stessa dignità filiale e obbediente di Cristo, il suo lavoro quotidiano trasfigurato nell'eucaristia dove si offre «il frutto della terra e del lavoro dell'uomo». Una conclusione breve per suggerire a quanti sono interessati, e in special modo a vescovi e delegati, che le vocazioni al diaconato, come si è detto già anni addietro, non dovrebbero essere selezionate e formate in prevalenza tra i bravi e volenterosi pensionati, ma tra giovani e apprezzati lavoratori che hanno la possibilità di testimoniare con la vita ordinaria di essere veri discepoli del Signore.


----------
torna su
torna all'indice
home