XXVI Domenica del Tempo Ordinario (B)
Letture Patristiche

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Letture Patristiche della Domenica
Le letture patristiche sono tratte dal CD-Rom "La Bibbia e i Padri della Chiesa", Ed. Messaggero - Padova, distribuito da Unitelm, 1995.


ANNO B - XXVI Domenica del Tempo Ordinario


DOMENICA «DELLA CATECHESI SULLO SCANDALO»

Numeri 11,25-29 • Salmo 18 • Giacomo 5,1-6 • Marco 9,38-43.45.47-48
(Visualizza i brani delle Letture)


1. Ricevere un piccolo è accogliere Cristo (Beda il Vener., In Evang. Marc., 9, 38-43)
2. Il figlio dell'ancella e il figlio della libera (Origene, Hom. in Genesim, 7,4)
3. Il verme che non morirà e il fuoco che non estinguerà (Agostino, De civ. Dei, 21, 9, 1)
4. Nell'anima, e non nel corpo, si deve combattere il peccato (Isacco di Antiochia, Carmen de poenit.)
5. Temere solo per il castigo è riprovevole (Agostino, Enarrat. in Ps., 127,7)
6. Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi (Dal trattato «Sui quattro gradi della veemenza della carità» di Riccardo di san Vittore)


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1. Ricevere un piccolo è accogliere Cristo

"Giovanni gli rivolse la parola: «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demoni in nome tuo, ma non gliel'abbiamo permesso perché non è dei nostri»" (Mc 9,38).
Giovanni, che amava con straordinario fervore il Signore e perciò era degno di essere riamato, riteneva dovesse essere privato del beneficio chi non ricopriva un ufficio. Ma viene ammaestrato che nessuno dev'essere allontanato dal bene che in parte possiede, ma che piuttosto dev'essere invitato a ciò che non ancora possiede. Continua infatti:
"Ma Gesù gli disse: «Non gliel'impedite. Non c'è nessuno infatti che operi miracoli nel mio nome e possa subito dopo parlar male di me. Chi infatti non è contro di voi, è con voi»" (Mc 9,39-40).
Lo stesso concetto ripete il dotto Apostolo: "Purché Cristo sia in ogni modo annunziato, per dispetto o con lealtà, io di questo godo e godrò!" (Fil 1,18). Ma anche se egli s'allieta per coloro che annunziano Cristo in modo non sincero e, poiché fanno di conseguenza talvolta miracoli per la salvezza degli altri, consiglia che non ne vengano impediti, tuttavia costoro per tali miracoli non possono sentirsi giustificati; anzi, in quel giorno in cui diranno: "Signore, Signore, non abbiamo forse profetato in nome tuo, e non abbiamo scacciato i demoni nel tuo nome, e nel tuo nome non abbiamo compiuto molti miracoli?", essi riceveranno questa risposta: "Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me voi che operate l'iniquità" (Mt 7,22-23). Perciò, per quanto riguarda gli eretici e i cattivi cattolici, dobbiamo solennemente respingere non quelle credenze e quei sacramenti che essi hanno in comune con noi e non contro di noi, ma la scissione che si oppone alla pace e alla verità, per la quale essi sono contrari a noi e non seguono in unità con noi il Signore.
«Infatti, chiunque vi darà da bere un bicchier d'acqua in mio nome, perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41).
Leggiamo nel profeta David (cf. Sal 140,4) che molti, a titolo di scusa dei loro peccati, pretendono che siano giusti gli stimoli che li spingono a peccare, così che, mentre volontariamente peccano, s'illudano di farlo per necessità. Il Signore, che scruta il cuore e i reni, sarà capace di vedere i pensieri di ciascuno. Aveva detto: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli in mio nome, riceve me" (Mt 18,5). Qualcuno avrebbe potuto obiettare polemizzando: «Me lo vieta la povertà, la mia miseria mi impedisce di riceverlo», ma il Signore annulla anche questa scusa col suo lievissimo comandamento per indurci almeno a porgere con tutto il cuore un bicchier d'acqua, magari fredda, come dice Matteo (cf. Mt 10,42). Dice un bicchiere d'acqua fredda, non calda, affinché non si cerchi in questo caso una scusa adducendo la miseria e la mancanza di legna per scaldarla.

(Beda il Vener., In Evang. Marc., 9, 38-43)

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2. Il figlio dell`ancella e il figlio della libera

Due sono dunque i figli di Abrahamo, "uno dall'ancella e uno dalla libera" (Gal 4,22), tuttavia l'uno e l'altro figli di Abrahamo, quantunque non ambedue anche della libera. Per questo colui che nasce dall'ancella, non diventa ugualmente erede con il figlio della libera, tuttavia riceve doni e non viene rimandato a mani vuote; anch'egli riceve una benedizione, ma il "figlio della libera" riceve la promessa (cf.Gal 4,23.30); anch'egli diventa "una nazione numerosa" (Gen 21,13; Gen 12,2), ma costui il popolo dell'adozione (cf. Gal 4,31; 1Pt 2,9-10).
Spiritualmente, dunque, tutti quelli che mediante la fede giungono alla conoscenza di Dio, possono essere detti figli di Abrahamo; ma fra questi ve ne sono alcuni che aderiscono a Dio per amore, altri per la paura e il timore del giudizio futuro. Per cui anche l'apostolo Giovanni dice: "Chi teme non è perfetto nell'amore; l'amore perfetto scaccia il timore" (1Gv 4,18). Questi dunque, che è "perfetto nell'amore", nasce da Abrahamo, ed è "figlio della libera". Chi invece custodisce i comandamenti non per amore perfetto, ma per paura della pena futura e per timore dei supplizi, certo è anch'egli figlio di Abrahamo, anch'egli riceve doni, cioè la mercede della sua opera (poiché anche chi avrà dato soltanto un bicchiere di acqua fresca per riguardo al nome di discepolo, la sua mercede non verrà meno [Mt 10,42]), tuttavia è inferiore a colui che è perfetto non nel timore servile, ma nella libertà dell'amore.

(Origene, Hom. in Genesim, 7,4)

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3. Il verme che non morirà e il fuoco che non estinguerà

Avverrà, avverrà certamente ciò che Dio ha detto, per mezzo del suo profeta, circa il supplizio eterno dei dannati: "Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà" (Is 66,24). È per rincalzare con più forza questa verità che il Signore Gesù - raffigurando con le membra che scandalizzano quegli uomini che amiamo come le nostre stesse membra - dice comandando di amputarle. "È bene per te entrare nella vita mutilato, piuttosto che con due mani andartene nella gehenna, nel fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il loro fuoco non si estingue" (Mc 9,43s). Così, parlando del piede, dice: "È bene per te entrare zoppo nella vita eterna, piuttosto che con due piedi essere mandato nella gehenna del fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue" (Mc 9,45s). E non altrimenti dice, parlando dell'occhio: "È bene per te entrare guercio nel regno di Dio, piuttosto che con due occhi essere mandato nella gehenna del fuoco, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue" (Mc 9,47s). Non esita a ripetere nello stesso passo per tre volte le stesse parole. Chi non è atterrito per questa ripetizione, e per la minaccia tanto veemente di quella pena uscita dalla bocca divina?
Alcuni intendono che questi due elementi, il fuoco e il verme, siano pene dell'anima e non del corpo, e dicono anche che gli uomini, che saranno stati separati dal regno di Dio, saranno riarsi dal dolore dell'anima, che troppo tardi e senza frutto ormai si pente, e perciò pretendono che si può convenientemente usare il termine «fuoco» al posto di questo dolore bruciante, come nella frase dell'Apostolo: "Chi viene scandalizzato, che io non ne arda?" (2Cor 11,29). E pensano che nello stesso modo si debba interpretare «verme»; infatti, come dicono, sta scritto: "Come la tignola consuma il vestito e il verme il legno, così la tristezza tormenta il cuore dell'uomo" (Pr 25,20). Coloro invece che non hanno dubbi sulla presenza, in quel supplizio, di pene sia dell'anima e del corpo, affermano che il corpo sarà bruciato dal fuoco e l'animo sarà roso quasi dal verme dell'afflizione. Quantunque questa affermazione sia più attendibile - è certamente assurdo infatti che ivi non vi sia dolore o dell'anima o del corpo - a me tuttavia sembra più ovvio asserire che tutt'è due questi dolori interessino il corpo, piuttosto che nessuno dei due. Perciò in quelle parole della divina Scrittura non si parla del dolore dell'anima, perché è logico, anche se non lo si dice, che quando il corpo soffre tanto, anche l'anima ne sia tormentata da una sterile penitenza. Si legge del resto anche nelle antiche Scritture: "La vendetta sulla carne dell'empio: fuoco e verme" (Eccli 7,19). Si poteva dire più in breve: «La vendetta sull'empio». Perché dunque si dice «sulla carne dell'empio», se non per il fatto che ambedue, cioè il fuoco e il verme, saranno pena della carne? Se poi la Scrittura ha voluto parlare di vendetta della carne, perché si punirà nell'uomo la sua vita secondo la carne (per la quale l'uomo vien travolto dalla morte seconda, come ci insegna l'Apostolo dicendo: "Infatti se vivrete secondo la carne morirete" [Rm 8,13]), ciascuno scelga ciò che gli piace: o riferire il fuoco al corpo e il verme all'anima – quello in senso proprio, questo in senso figurato – o riferire tutt'e due in senso proprio al corpo.

(Agostino, De civ. Dei, 21, 9, 1)

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4. Nell'anima, e non nel corpo, si deve combattere il peccato

"Se uno dei tuoi membri ti è d'inciampo, taglialo e gettalo via da te come ci vien comandato" (Mt 5,30). E ancora: "Se un tuo occhio ti è di scandalo, strappalo e gettalo via dal tuo viso" (Mt 5,29; Mc 9,47). Ma l'agiografo non ti insegna a distruggere in realtà le tue membra: tu non devi annientare ciò che Dio ha creato, perché egli ha creato tutto bene. L'occhio non ha mai commesso un adulterio, perché questo peccato non rientra nelle sue azioni; e neppure la mano ha mai commesso furto, perché essa è per sua natura priva d'intelligenza.
Vi sono adulteri ciechi e ladri monchi; non pensare, perciò, che la causa dei peccati sia nella mano o nell'occhio. Ma è il tuo spirito piuttosto che vede qualcosa e lo brama; contro di lui devi combattere. È la bramosia cattiva che ti è di impaccio: taglia essa via da te e gettala lontano: ciò ti è comandato.
Il pazzo si recide le membra, ma non allontana, con ciò, il male da sé. Una parte del suo corpo in tal modo è stata asportata e gettata, ma il peccato è ancora attivo in lui. Le membra ubbidiscono alla tua anima come docili discepoli, e configurano le loro azioni secondo il modello da essa proposto.
All'uomo esteriore corrisponde quello interiore, e l'uomo percepibile al di fuori è simile a quello nascosto, all'uomo spirituale. Anche l'uomo interiore ha occhi, ha orecchie e mani, proprio come quello esteriore e ha i suoi sensi. Chiudi i tuoi occhi e comprenderai che non solo l'organo visivo corporeo può vedere; tappa le orecchie e odi il tumulto dei tuoi pensieri! Vedi: esso ti travolge in una guerra crudele; perché tendi le tue orecchie a ciò che sta di fuori? Vedi: in casa tua vi sono i ladri; dove corri tu, dietro di loro? Perché dunque le tue membra hanno peccato?
Combatti contro la tua anima! Ciò che è esterno non è in te causa di peccato: con l'interno devi sostenere battaglia. Ma anche se riuscissero a tagliare dal loro corpo la concupiscenza malvagia coloro che si son mutilati delle proprie stesse membra, non otterrebbero con ciò la giustizia.
Anche l'Apostolo, come abbiam visto sopra, biasima quei vili che sono crudeli col loro corpo, ma non vivono in onore, come conviene. Secondo la tua idea, quale tuo membro sarebbe tanto aggravato di peccati che, amputando esso solo, tu possa allontanare il male dal tuo corpo?
I tuoi discorsi sono peggiori di un adulterio e ciò che ascolti è più perverso del furto; la tua bocca commette continuamente il grave crimine dell'omicidio, le tue labbra sono come un arco teso e le tue parole producono ira; senza pietà ricopri di ridicolo coloro che si rivolgono a te. La tua lingua è più acuta di una spada e il tuo occhio è rivolto al male. Tutto ciò è in te nascosto, e tu credi che vi sia un unico male?
Se tu vuoi tagliarti un membro, taglia piuttosto questo male che hai dentro. Invece che un membro, che non ha peccato, colpisci la causa di tutte le colpe, non essere un giudice ingiusto tra il tuo corpo e la tua anima; come arbitro, non condannare l'innocente invece del colpevole. Rimprovera l'uomo spirituale che sta nascosto in te e rivolgi il tuo furore verso chi in te si cela, non verso chi in te è visibile!

(Isacco di Antiochia, Carmen de poenit.)

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5. Temere solo per il castigo è riprovevole

"Laggiù non morrà il loro verme né si spegnerà il fuoco che li divora" (Mc 9,43). Ascoltando queste minacce, che toccheranno certamente agli empi, alcuni, presi da timore, si astengono dal peccato. Hanno paura e per questa paura non commettono peccati. Son persone che temono [il castigo] ma non ancora amano la giustizia. Tuttavia quel timore che li spinge ad astenersi dal peccato crea in loro un`inclinazione costante per la giustizia, e ciò che prima era difficile comincia a piacere e si assapora la dolcezza di Dio. A tal punto l`uomo inizia a vivere nella giustizia non per timore delle pene ma per amore dell`eternità.

(Agostino, Enarrat. in Ps., 127, 7)

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6. Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi

Quando un'anima di questo mondo fosse consumata dal fuoco della carità tanto da divenire malleabile e liquefatta come cera, che cosa le manca se non che le sia proposta «la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2) come una norma per giungere alla perfetta carità cui sempre conformarsi? Come il metallo fuso scorre con facilità verso i luoghi più bassi, dovunque trovi un passaggio, così l'anima in questo stato si sottomette a ogni obbedienza e si piega volentieri a ogni umiliazione secondo la disposizione divina.
All'anima in questo stato viene offerto l'esempio dell'umiltà di Cristo, dicendole: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua eguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-7.8).
Questo è il modello dell'umiltà di Cristo, cui si deve conformare chi vuole giungere al grado più alto della perfetta carità. «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13); quelli dunque che possono offrire la loro vita per gli amici adempiendo il monito dell'Apostolo «Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi» (Ef 5,1), questi hanno raggiunto il culmine dell'amore e si trovano al quarto grado della carità.
Nel terzo grado l'anima si gloria in Dio, nel quarto invece si umilia per amore di Dio. Nel terzo grado si configura allo splendore della gloria divina, nel quarto si conforma all'umiltà del Cristo. Nel terzo grado, in certo modo muore in Dio, nel quarto è come risuscitata in Cristo. Chi perciò si trova nel quarto grado può veramente dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). È generata quindi come una nuova creatura, cui si può applicare questa frase: «Le cose vecchie son passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17). Chi è morto a se stesso nel terzo grado, è come risorto dai morti nel quarto. Ormai «non muore più, la morte non ha più potere su di lui: per il fatto che egli vive, vive per Dio» (Rm 6,9.10).
In un certo modo, perciò, l'anima in questo grado diventa immortale e impassibile. Come sarebbe mortale se non può più morire? E come fa a morire se non può separarsi da colui che è la vita?
Sappiamo bene di chi è questa sentenza: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Come dunque può morire chi non può essere separato da lui? Non sembra in certo modo impassibile chi non soffre più per i danni subiti, ma si rallegra per ogni ingiuria e accoglie come un onore ogni pena che gli viene inflitta, secondo quella espressione dell'Apostolo: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12,9)? Rimane infatti quasi impassibile colui che si compiace nelle sofferenze e negli oltraggi per Cristo.

(Dal trattato «Sui quattro gradi della veemenza della carità» di Riccardo di san Vittore)



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