Accogliere la Parola per accogliere l'altro


Il diaconato in Italia n° 202
(gennaio/febbraio 2017)

EDITORIALE


Accogliere la Parola per accogliere l'altro
di Giuseppe Bellia

Per un vero discepolo di Cristo, accogliere la parola comporta una sincera ed effettiva accoglienza dell'altro. Non è una scelta etica, frutto d'impegno virtuoso ma una verità teologale che impegna il credente in un continuo processo di conversione. Ammoniti dal detto di Gesù trasmessoci da Matteo (5,37) di evitare nel nostro parlare, nel nostro argomentare saccente tutto quel di più che, non venendo dalla parola accolta, rischia di essere chiacchiera del maligno, per mostrare questo nesso vitale tra diaconia della Parola e servizio ai poveri, dobbiamo fare leale e umile affidamento alla luce che viene dalla Scrittura.
Riprendendo qui quanto scritto in passato in più luoghi, si può subito ricordare che nel linguaggio biblico, l'ambito dell'accoglienza è quello dei rapporti interpersonali, sia quando si pongono in relazione persone già legate da vincoli di vario genere, sia nell'incontro con il diverso, con lo sconosciuto, con lo straniero. In particolare, nell'esperienza dell'antico popolo dell'alleanza, l'accoglienza mette a fuoco una peculiare modalità di rapporto tra Dio e l'uomo, tra uomo e uomo e tra l'uomo e le cose: i tre ambiti mostrano che l'accoglienza copre tutto il campo dell'esperienza umana, dalla relazione con Dio al rapporto con la realtà creata.
Quando il soggetto dell'azione è Dio, gli scrittori biblici tratteggiano la sua benevolenza verso l'uomo come favore, compiacimento, gradimento divino, specialmente nell'ambito del culto (cf. Lv 7,18; 19,7; 22,23.25.27; Dt 33,11; Os 8,13; Mi 6,7), dove l'offerta dei loro doni e, ancor meglio, delle loro vite è accolta «come soave profumo» (Ez 20,40.41). Il linguaggio dell'accoglienza interpreta il particolare rapporto tra Dio e l'uomo, soprattutto nell'esperienza orante dei Salmi (Sal 6,10), dove il salmista è consapevole di essere dovunque straniero sulla terra (Sal 39,13; 119,19) e, perciò, desidera ardentemente di trovare sicurezza e consolazione. Il medesimo atteggiamento di apertura si attesta anche nell'incontro tra le persone.
Nel genere narrativo, ad esempio, questo si legge nelle vicende di Esaù e Giacobbe. Quando quest'ultimo decide di tornare in Canaan, dopo un periodo di lunga assenza, sa che suo fratello potrebbe vendicarsi dell'inganno perpetrato a suo danno, essendogli stata carpita la benedizione dell'anziano padre Isacco (Gen 27,1-44). Per questo si fa precedere da regali, che preparino il suo arrivo disponendo al meglio l'animo di Esaù, pensando: «Renderò lucente la sua faccia col dono che mi precede e in seguito vedrò il suo volto; forse mi accoglierà benevolmente» (Gen 32,21). In effetti, lo stratagemma sortisce l'effetto sperato e, quando i due fratelli si incontrano, le parole di Giacobbe sono estremamente significative nel riconoscere l'accoglienza ricevuta da Esaù: «No, ti prego, se ho trovato grazia agli occhi tuoi, accetterai dalla mia mano il dono mio, perché è appunto per questo che io sono venuto alla tua presenza, come si viene alla presenza di Dio, e tu mi hai accolto bene» (Gen 33,10).
Da ricordare che l'Antico Testamento conosce un modo tipico di esternare la disponibilità interiore verso valori e realtà soprannaturali, facendo uso del linguaggio dell'accoglienza. I riferimenti sono alla sapienza, alla prudenza, all'intelligenza, alla saggezza, alla scienza, al timore di Dio (come in Pr 10,8; 21,11; 30,1; Ger 5,3; 9,19; 17,23), ma anche alla disponibilità verso l'insegnamento di Dio (Pr 4,10; Ger 9,20), che spesso si rivela come correzione, disciplina (Ger 2,30) e addirittura come castigo (Is 40,2). Dunque, l'accoglienza mette a fuoco il mondo spirituale dei rapporti che danno senso e pienezza alla vita, dove la libertà gioca un ruolo di grande importanza. Anzi, proprio l'accoglienza determina la scoperta di ciò che davvero è essenziale e colora l'esistenza, come attesta il paterno e sapiente ammonimento dell'autore del libro dei Proverbi: «Figlio mio, se accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, tendendo il tuo orecchio alla sapienza... allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio» (Pr 2,1).
In continuità con l'uso dell'Antico Testamento, anche i vangeli ricorrono alla terminologia dell'accoglienza per indicare la libera e volontaria adesione alle realtà della fede, o al loro rifiuto. In concreto, si intende l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla parola, al regno, alla luce e alla predicazione dei discepoli itineranti. Sotto questo profilo, alle parabole evangeliche è affidato un messaggio che, forse, il genere letterario discorsivo non renderebbe con tanta ricchezza e profondità. Anzi, Gesù sintetizza tutta una parabola nella sua battuta conclusiva: «Quelli che ricevono il seme su terreno buono sono coloro che ascoltano la parola, l'accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno» (Mc 4,20). È l'ammonimento finale di un racconto che paragona l'uomo ad un terreno e la Parola di Dio al seme (Mt 13,1-9.18-23; Mc 4,19.13-20; Lc 8,48.11-15).
Il successo parziale o totale, che si valuta al momento della mietitura, non dipende dal seminatore, che non fa preferenze e getta dappertutto la semente, né dal seme stesso, che è indistintamente buono e fruttifero. Tutto si gioca sulla qualità del terreno, metafora della persona umana e, insieme, paradigma delle differenti risposte che si possono dare alla Parola accolta. Il seme sparso può mettere radici e germogliare con una certa facilità, anzi vi sono terreni/persone che si aprono ad essa «con gioia» (Lc 8,13; Mt 13,20; Mc 4,16), ma quell'immediatezza entusiasta non è sufficiente a contrastare le prove, come il fascino della ricchezza e la tentazione di lasciarsi travolgere dai piaceri della vita. Invece, la Parola cresce e produce frutto solo dove trova un atteggiamento duraturo e meditativo di ascolto e di accoglienza.
Pertanto, c'è una dimensione peculiare dell'accoglienza con la predicazione e, naturalmente, anche con il discepolo che la trasmette. Proprio dalle parole di Gesù veniamo a sapere che l'attività missionaria dovrà fare i conti tanto con l'apprezzamento dell'ospitalità, quanto con l'amarezza della non-accoglienza (Mt 10,5-42 e par.). L'evangelo, infatti, è introdotto dal dono della pace (Mt 10,13), che, però, può essere accolto o rifiutato (Mt 10,14; Mc 6,11; Lc 9,5). E ancora: «In verità vi dico, se uno non accoglie il Regno di Dio come un fanciullo, non potrà mai entrare in esso» (Mc 10,15 e par.). Qui si tratta di una sensibilità capace di meravigliarsi e di sorprendersi, tipica di quella tensione interiore, carica di speranza e di gioia, che si prova nel dinamismo dell'attesa. Il desiderio del Regno, già presente ma non ancora realizzato in pienezza, crea un simile movimento di tensione esistenziale verso l'altro, com'è narrato nella vicenda dell'anziano Simeone, che ha accolto la consolazione di Israele, accogliendo tra le braccia il figlio di Maria (Lc 2,25).
Così intesa, l'accoglienza è una realtà divina che non può essere ridotta alla mera filantropia, né si lascia classificare tra gli ideali dell'utopia. Cristo la sostiene, la motiva e con il suo esempio la propone nella quotidianità della sequela, rendendola eterna: «Queste le tre cose che rimangono: fede, speranza, agapê. Più grande di tutte è l'agapê» (1Cor 13,13). Incarnata nelle comunità ecclesiali di ogni tempo e luogo, la reciprocità dell'amore fraterno testimonia che l'accoglienza della Parola si traduce per opera della grazia nella testimonianza dell'ospitalità. Accogliere l'altro, il diverso è annuncio e testimonianza profetica che fa sperare nella possibilità di vivere in pace per edificare l'unità della famiglia umana in una dimensione creaturale condivisa e ritrovata, come ricorda papa Francesco nella sua enciclica «Laudato si'» sulla cura della casa comune. Accogliere la Parola, è dare una risposta positiva all'amore di Dio rivelato in Cristo crocifisso che si presenta a noi nei fratelli e in tutti i crocifissi della storia. L'apertura verso l'altro, verso l'ultimo, è autentica diaconia evangelizzante perché rende visibile nel mondo la presenza dell'Invisibile.


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