XIX Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 6/2017)



ANNO A – 13 agosto 2017
XIX Domenica del Tempo ordinario

1Re 19,9a.11-13a
Rm 9,1-5
Mt 14, 22-33
(Visualizza i brani delle Letture)


CRISTO SCONFIGGE
OGNI NOSTRA PAURA

«Signore, salvami!». L'invocazione di Pietro che a ragione della sua fragile fede rischia d'essere ingoiato dalle acque può ben costituire il tema dominante di questa domenica. In questione è la fede, l'abbandonarsi fiducia le al dono di Dio che si fa esplicito nella salvezza offertaci nel Figlio.

La prima lettura, tratta dal Primo libro dei Re è notissima. Elia ha ripercorso a ritroso il cammino dell'Esodo. Fugge dalla persecuzione di cui l'ha fatto oggetto Gezabele, la moglie pagana del re Acab che non gli perdona l'uccisione dei profeti di Baal (cf 1Re 19,1-2). Ora giunto sull'Oreb e rifugiatosi in una caverna sta per trascorrervi la notte. Ma Dio gli ingiunge di portarsi fuori e di fermarsi alla sua presenza. Dio nessuno può vederlo. Sappiamo come a Mosè egli consenta solo di guardarlo di spalle. Di Dio si può solo sperimentare la presenza, il "passaggio". Ma dove, come? L'esperienza di Elia è paradossale. Vediamo l'uno dietro l'altro scatenarsi gli elementi: il vento impetuoso, il terremoto, il fuoco. Ma in nessuno di essi Dio è presente. Elia comprende che egli è presente - e perciò si copre il volto ed esce e si ferma - solo quando lo raggiunge una brezza leggera. In questo «un sussurro di brezza leggero» la tradizione spirituale ha anche colto il soffio dello Spirito. E, in effetti, Elia è per eccellenza il profeta carismatico, caro all'immaginario del suo popolo che ne attende il ritorno. Nel testo proclamato egli gode di un'esperienza dolce e soave, forse diversa dalla sua aspettativa, nella quale tuttavia sa discernere la vera presenza di Dio.

La lettura apostolica è tratta dalla lettera ai Romani. Il tema è ora quello di Israele (cc. 9-11), il cui atteggiamento verso Gesù infligge a Paolo una sofferenza continua. Egli è lacerato in sé stesso perché sente di appartenere a Israele, di cui compartisce il sangue. A favore di questi suoi "fratelli" preferirebbe essere lui stesso separato da Cristo. Detto altrimenti, preferirebbe perdersi, dannarsi, pur di ottenere la loro salvezza. Di Israele egli elenca i privilegi: adozione, gloria, alleanza, legislazione, culto, promessa. A Israele appartengono i patriarchi e Cristo stesso "secondo la carne". Ed è affermandone la signoria e la divinità, dicendolo "Dio benedetto nei secoli" - formula cara a Israele - che il brano oggi proclamato (Rm 9,1-5) si chiude.
Fa davvero pensare lo scarto tra quanto Paolo afferma e l'atteggiamento che i cristiani hanno avuto verso il popolo eletto. E se, indubbiamente, molta ostilità è germinata per il rifiuto di Gesù, Messia e Signore, resta ingiustificato un comportamento che da ultimo ha prodotto il male assoluto della shoah. Eppure la Lettera ai Romani afferma con chiarezza che Dio non rinnega la sua parola, non tradisce le promesse e l'alleanza. Israele resta il nostro "fratello maggiore" e noi l'olivastro innestato sulla sua radice santa (cf Rm 11,16-18).

Tra il brano della Lettera ai Romani, la prima lettura, e il Vangelo sembra non esserci alcun rapporto, fatta eccezione per la formula di fede relativa alla signoria di Cristo e la benedizione di lui, Dio nei secoli. Proprio quest'ultima ci consente la transizione al testo evangelico che, come dicevamo, tematizza la fragilità della fede. Mt 14,22-33 sta all'interno di un capitolo che si apre con la vicenda tragica del Battista e prosegue narrando l'attività di Gesù seguito dalle folle. Delle stesse egli sazia la fame moltiplicando il pane. Avremmo dovuto leggerne la pericope nella XVIII Domenica del tempo ordinario. Leggiamo di Gesù che cammina sulle acque e calma la tempesta. Racconto presente anche in Mc 6,45-51a e Gv 6,16-20. Varie le suggestioni che il testo propone.
La compassione di Gesù verso la folla, il suo volersene accomiatare dopo averla sfamata; il desiderio suo di ritirarsi sul monte a pregare; l'invito ai discepoli di muoversi verso la riva opposta e attenderlo. Poco distanti che essi siano da riva si leva un vento furioso che alza le onde. Non è la prima volta in Matteo che i discepoli si trovano in difficoltà nel mare di Tiberiade e che Gesù placa la tempesta (cf Mt 8,23-27). In quel caso però, Gesù è con loro e dorme. Ora, invece, sono soli e soltanto sul finire della notte egli li raggiunge camminando sull'acqua. E poiché lo scambiano per un fantasma, li rassicura: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Rispetto ai testi richiamati Matteo ha una sua peculiare variante, quella di Pietro che chiede di camminare sulle acque.
Pietro dunque cammina sull'acqua ma, a motivo del vento impetuoso, dubita, vacilla e affonda. Lo afferra Gesù, traendolo in salvo e lo rimprovera per la sua poca fede. Corrono in questo testo alcuni stereotipi che richiamano il riconoscimento del Signore risorto. Spesso i suoi non lo identificano se prima lui stesso non si sia fatto riconoscere. E, riconosciutolo, lo adorano. Avviene così, sedata la tempesta. I discepoli si prostrano e lo confessano "Figlio di Dio". La comunità matteana insomma proietta all'indietro, nella vicenda del Gesù terreno, quanto ha esperito nella forza della Pasqua. Per suggestivo che sia questo accostare alle apparizioni del risorto la narrazione odierna, essa ha certamente la sua chiave nella fragilità della fede di Pietro che Gesù rimprovera perché oligopistos, di "piccola fede".


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