XIII Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 5/2017)



ANNO A – 2 luglio 2017
XIII Domenica del Tempo ordinario

2Re 4,8-11.14-16a
Rm 6,3-4.8-11
Mt 10,37-42
(Visualizza i brani delle Letture)


IL DOVERE
DELL'ACCOGLIENZA

«Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Proponiamo questa espressione come riassuntiva del messaggio veicolato dalle letture. Sì, oggi la chiave di volta sta nel verbo "accogliere", sia che lo si declini nel testo evangelico, sia che ce ne venga dato un modello nella vicenda di Eliseo, sia che si tratti del dono di grazia, della condizione battesimale.

Il secondo libro dei Re ci propone tra le altre la vicenda di Eliseo, non diversamente da Elia (cf 1Re) particolarmente vivo nell'immaginario di Israele. Il testo oggi proclamato ci narra del suo rapporto con una donna "illustre", evidentemente facoltosa e di buona famiglia, che lo accoglie ogni volta che egli si trova a passare dalla sua città. Questa donna non si limita a dar da mangiare al profeta; essa si spinge sino a proporre al marito di costruire per lui una piccola camera e di arredarla così che vi possa comodamente riposare. Eliseo si chiede a questo punto cosa può fare per corrispondere alla generosità della donna. E, come abbiamo ascoltato, la risposta è quella ovvia. La donna che ha difficoltà a generare di lì a un anno avrà tra le sue braccia un figlio.
Di donne accoglienti nella storia della salvezza ne troviamo tante. Purtroppo le rinserriamo nella stereotipia della cura e poi della fecondità assicurata. Ma forse a spingere la donna - che comunque può permetterselo perché "illustre" - è la considerazione del profeta, il rispetto verso la funzione che egli esercita, il giudizio sicuro sulla sua santità. Voglio dire che dietro la "cura" forse sta anche la saggezza, la sicurezza di giudizio, il discernimento. Sicché il premio ricevuto, il più ovvio e rassicurante - avere garanzia di continuità mediante il generare - ha probabilmente uno spessore più complesso.

I versetti estrapolati dal capitolo 6 della lettera ai Romani ci riconducono invece all'accoglienza della fede, ovvero all'affermazione forte e solenne, proposta qui da Paolo, circa la condizione battesimale e ciò che attiva e comporta. Innanzitutto la conformazione a Cristo morto e risorto, visto che l'azione battesimale significa appunto l'essere sepolti con lui così da risorgere con lui. L'accoglienza è dunque di lui, del vivere di lui e con lui. L'accoglienza è della vita nuova che egli ci ha elargito. Insomma un manifesto gioioso della novità cristiana, della vita cristiana a partire da colui che ha sconfitto il peccato e la morte e che ora vive per Dio. La condizione cristiana è appunto questa, in tutto prossima al mistero di Cristo. Ora i credenti sono morti al peccato e viventi per Dio in Cristo Gesù.

Il testo evangelico prosegue nella proclamazione di Mt 10. I versetti sono quelli da 37 a 42. Ascoltiamo le parole controcorrente di Gesù che iscrive il discepolato oltre le dinamiche dei rapporti familiari, anzi li sovverte. Il discepolo autentico deve amare Gesù più di quanto non ami il proprio padre o la propria madre, il proprio figlio o la propria figlia. E il discorso si fa ancora più esigente nel fare condizione stessa del discepolato il prendere la propria croce e seguire Gesù. In crescendo, chi avrà salvato la propria vita la perderà e chi l'avrà persa per la causa di Gesù la troverà. Vediamo insomma sempre più precisarsi l'identikit discepolare nel segno di una radicalità che mette in conto il conflitto. Il messaggio di Gesù non comporta una fede irenica e accomodante. Tutt'altro.
La sequela implica per suo statuto la conflittualità e la prova. E ciò a partire dalle relazioni familiari. Spesso dimentichiamo quanto i vangeli siano critici relativamente a un istituto al tempo di Gesù ancorato alla cultura patriarcale e perciò spesso normato gerarchicamente e utilitaristicamente. Il testo parla di amare, un sentimento addirittura estraneo al tessuto della famiglia patriarcale. In ogni caso, seguire Gesù, amarlo, ha precedenza su tutto. Cosa che abbiamo dimenticato riproponendo la priorità delle relazioni familiari e addirittura modulando su di esse la stessa articolazione della Chiesa. Quella dei discepoli è una famiglia altra, diversa, retta dunque da altre istanze, prima tra tutte la radicalità del discepolato.
Il testo di Matteo usa l'espressione «non è degno di me", ossia non è riconducibile al discepolato autentico, anche nei confronti di chi - uomo o donna - non prende la propria croce per seguire Gesù. Di nuovo emerge una comunità che ha metabolizzato e fatto diventare criterio della propria vita la croce del Signore. Il che è sinonimo del perdere la propria vita per acquistarla o dell'acquistarla per perderla invece definitivamente.
Questa trama di degnità/indegnità, sequela/non-sequela, si connota al v. 40 a partire dall'accoglienza. Si tratta dell'accogliere il discepolo così accogliendo in verità Cristo stesso; si tratta di accogliere Cristo stesso accogliendo così colui che lo ha inviato; si tratta ancora di accogliere un profeta - ecco il rimando alla lettura veterotestamentaria - o di accogliere un giusto. Si tratta infine di offrire in quanto discepolo un bicchiere d'acqua ai piccoli. Insomma nessuno che si collochi autenticamente all'interno della catena testimoniale del discepolato verrà privato della sua ricompensa. Ovviamente il discorso evoca le figure attuative del discepolato, i dodici in senso stretto. Ma quelle che in Mt 11,1 sono «le consegne date da Gesù ai dodici» ci investono tutti.


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