I Domenica di Avvento (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 10/2016)



ANNO A - 27 novembre 2016
I Domenica di Avvento

Is 2,1-5
Rm 13,11-14
Mt 24,37-44
(Visualizza i brani delle Letture)


INDOSSARE
LE ARMI DELLA LUCE

L'aspettativa della venuta del Signore connota il tempo d'Avvento (volgarizzazione del latino adventus) nella sua doppia valenza di attesa del Signore che torna e di attesa del Signore che viene a compartire la nostra stessa carne. Ci guida quest'anno l'evangelista Matteo. Il suo vangelo, redatto probabilmente sulla soglia dell'ultimo decennio del I secolo d.C., si rivolge a una comunità ebraica nella quale hanno cominciato a inserirsi anche gentili. Questa caratterizzazione - oggi se ne ipotizza una di origine palestinese e addirittura galilaica - motiva determinate attenzioni: la discendenza davidica del Messia, il ricorso a citazioni veterotestamentarie che in Gesù si sarebbero avverate, il raccordo alla Legge mosaica e la proposizione di Gesù come nuovo Mosè, soprattutto affidata ai cinque discorsi d'insegnamento variamente inseriti nel racconto.

Affiato escatologico ha la prima lettura, tratta da Isaia. Il profeta descrive il tempo ultimo nel quale il tempio del Signore sarà meta del pellegrinaggio dei popoli. Essi saliranno verso il luogo emblematico della presenza di Dio in seno al suo popolo per fame proprio l'insegnamento. Non solo Israele ma i popoli tutti nella visione del profeta ascenderanno verso il monte santo. Sion diventa così sorgente della legge e Gerusalemme il luogo da cui sgorga la parola del Signore. Questo incedere festoso nel quale si manifesterà la potenza di Dio, segna anche l'abbandono di ciò che ha contrapposto i popoli l'uno all'altro. La grande visione è dunque nel segno della riconciliazione e della pace, della sconfitta delle armi, anzi dell'abbandono dell'arte della guerra.
Il nostro testo - assai simile a Mi 4,1-3 - è inserito in una piccola raccolta di oracoli che viene fatta risalire all'inizio del ministero di Isaia. Tuttavia, benché interno ai capp. 1-12 generalmente riconducibili all'VIII secolo, sembra un'aggiunta posteriore. Certezze non ce ne sono ma questa è l'opinione maggioritaria fondata su dati quali l'universalità, l'affluenza dei popoli a Sion, la centralità della legge che si effonde e illumina i popoli. Si tratta comunque di temi che disegnano quell'ottimizzazione ultima e piena della vicenda umana resa possibile dall'adesione profonda al volere e alla parola del Signore.

I versetti oggi tratti dalla lettera ai Romani declinano l'attesa con altra immagine, quella del risveglio, della dismissione del sonno. La comunità cristiana delle origini attende il ritorno del Signore come imminente. Da qui la considerazione relativa alla sua prossimità. «La salvezza è più vicina di quando diventammo credenti», afferma Paolo e prosegue avvalendosi della metafora della notte e del giorno, ossia contrapponendo tenebra e luce. L'invito è ad abbandonare le opere delle tenebre e a indossare le "armi" della luce. L'attesa insomma è quella fattiva in cui ci si riveste del Signore Gesù.

Questi accenti diversamente diretti al compimento, trovano eco nelle parole di Matteo. I versetti proclamati oggi appartengono all'ultimo dei discorsi d'insegnamento, quello cosiddetto "escatologico" relativo alla fine e al ritorno glorioso del Signore. Il capitolo 24 raccoglie le parole di Gesù sulla "venuta del Figlio dell'uomo" e nei versetti che ascoltiamo contiene l'invito al discernimento e alla vigilanza. Gesù ha cominciato con l'annunciare la distruzione del tempio e, su esplicita domanda circa il tempo in cui ciò sarebbe avvenuto, ha esortato i suoi a non lasciarsi ingannare circa le voci, le contraddizioni, i disordini che caratterizzeranno ciò che precede la fine. In particolare ha descritto il tempo della "grande tribolazione" con immagini apocalittiche. In quel contesto di sconvolgimento cosmico avrà luogo la venuta del Figlio dell'uomo. Sono questi gli antecedenti della pericope oggi proclamata nella quale prevalgono toni meno catastrofici.
In essa Gesù richiama la condizione dell'umanità al tempo del diluvio, evento improvviso, non previsto, al pari della venuta del Figlio dell'uomo. Dinanzi alle sue modalità e agli eventi imprevedibili e drammatici che l'accompagnano, sta l'esortazione a vegliare proprio perché si ignorano il giorno e l'ora del ritorno del Signore. La pericope odierna si chiude con la ben nota parabola del padrone di casa che non sa quando verrà il ladro. Se lo sapesse correrebbe ai ripari; da qui l'invito a tenersi pronti, perché il Figlio dell'uomo giungerà inaspettato come il ladro nella notte. Per noi, Chiesa in cammino che attende il ritorno del Signore, iniziando un nuovo anno liturgico l'invito è alla vigilanza, a destarsi dal sonno, a operare così da cogliere come kairos, come "tempo opportuno", la venuta del Signore, prepararsi e prepararla. Certo i versetti proclamati non sono di univoca e facile lettura. Non fosse altro che per l'intreccio tra storia e metastoria, tra ciò che le comunità hanno già vissuto e ciò che attendono ancora.
La comunità di Matteo ha già visto la rovina di Gerusalemme e del tempio e probabilmente intreccia parole di Gesù relative alla fine, vuoi come distruzione della città, vuoi come evento ultimo ricapitolativo della storia. Per noi che leggiamo oggi resta l'imperativo a non dismettere l'attesa. La Chiesa non è il regno di Dio, è il suo germe e inizio (cf LG 5). La riserva, l'attesa escatologica, ci libera da ogni presuntuosa autoreferenzialità. Ci dà la misura del nostro limite, della nostra precarietà. E insieme alimenta il nostro sogno, la nostra profezia, la nostra speranza: il Signore verrà. Sta a noi discernere i segni della sua venuta. Sta a noi vigilare per non essere colti di sorpresa.


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