Commemorazione dei fedeli defunti

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 9/2016)



ANNO C - 2 novembre 2015
Commemorazione dei fedeli defunti

Gb 19,1-23-27a
Rm 5,5-11
Gv 6,37-40
(Visualizza i brani delle Letture)


CHI CREDE HA
LA VITA ETERNA

La commemorazione dei fedeli defunti, che in altri riti si celebra nell'immediatezza della Pentecoste, deve la sua collocazione al 2 novembre a consuetudini monastiche celtiche (sec. IX). Celebra anch'essa la communio sanctorum, la solidarietà di preghiera tra i vivi e i morti (cf LG 50), la fede compartita nell'esito ultimo, per noi tutti, della Pasqua del Signore. Quanto suggeriamo si riferisce alla prima delle tre messe che oggi è possibile celebrare. Ricordiamo che a consentire quest'accumulo fu Benedetto XV, nel 1915, stabilendo che una di esse fosse in suffragio dei morti in guerra.

La prima lettura propone un testo di Giobbe al quale la tradizione cristiana ha dato una valenza amplificata sotto il profilo escatologico. All'interno di questo libro sapienziale che affronta, senza compiutamente risolverlo, il problema della sofferenza del giusto, gli esegeti colgono proprio nel capitolo 19 una delle punte di diamante. Giobbe vi confessa la propria fede in Dio che, benché senza colpa, lo ha privato della ricchezza, della salute e persino della famiglia. Cose tutte giustificabili solo come un castigo divino, così argomentano gli amici che dialogano con lui. Egli però insiste sia nel proclamare la sua innocenza, sia nel confidare in Dio. Da qui il versetto chiave della nostra lettura: «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via [...] vedrò Dio. [...] I miei occhi lo contempleranno e non un altro».
La tradizione cristiana ha letto nella figura del redentore Cristo stesso nel suo risorgere da morte. E nell'affermazione relativa alla perdita della carne e alla sua riacquisizione la certezza della risurrezione individuale. In verità la dottrina escatologica d'Israele matura lentamente e proprio gli scritti sapienziali orientano verso una condizione diversa da quella umbratile dello she'òl, luogo sotterraneo più o meno assimilabile agli inferi della tradizione pagana, inizialmente sede dei morti e non luogo di sofferenza e castigo. Paradossalmente alla fine è la fede nel Dio della vita, l'abbandono fiduciale alla sua promessa a suggerire la speranza di una vita oltre la morte di cui si fa eco anche il salmo responsoriale.

Se nel testo di Giobbe la comunità cristiana proietta la pienezza di senso derivata dalla Pasqua, il testo della lettera ai Romani, oggi proposto, opera analogamente nella compiutezza iscritta nel mistero dell'amore di Dio riversato nel cuore dei credenti per mezzo dello Spirito. Paolo afferma senza mezzi termini che, proprio per questo, la speranza cristiana non può essere delusa. Se Cristo è morto per noi quando ancora eravamo peccatori, a maggior ragione ora che siamo stati giustificati nel suo sangue, saremo salvati mediante lui.
La lettera ai Romani argomenta, analogamente ma più organicamente della lettera ai Galati, sul rapporto tra Legge e giustificazione, rispondendo con ciò alle tensioni tra il cristianesimo d'origine giudaica e il cristianesimo d'origine pagana. Gli uni e gli altri abitano già la città di Roma verso la quale Paolo intende portarsi, facendosi precedere appunto da questa lettera. Per ciò che ci riguarda, l'esperienza della morte e la speranza della risurrezione, restano lapidarie le parole di Rm 8,11: «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi». La morte e risurrezione di Cristo, nella forza dello Spirito, è dunque paradigmatica per il credente. Egli vivrà, proprio partecipandovi. La condizione escatologica è già iniziata. La vita a noi elargita nello Spirito ne costituisce il necessario presupposto, l'habitat vitale.

La lettura evangelica è costituita da pochi versetti estrapolati dal capitolo 6 di Giovanni. È il cosiddetto discorso del "pane di vita", esplicativo del miracolo della moltiplicazione dei pani. Per noi oggi, nella forza emblematica dell'eucaristia, corpo e sangue del Signore, e della sinassi che, appunto, ci raccoglie, per compartirlo in memoria di lui, risuonano obbligate le parole del v. 54: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno». Gesù ha operato un miracolo straordinario. La folla che ne è testimone e i discepoli stessi vengono condotti dal piano del segno a quello assai più importante della sua comprensione. I versetti di oggi insistono sulla dinamica relazionale del dono. È il Padre a donare al Figlio i credenti.
Il suo disegno è che Gesù non perda nulla di quanto gli ha donato; il suo volere è che chiunque vede e crede nel Figlio abbia la vita eterna. «E io», dice Gesù, «lo risusciterò nell'ultimo giorno». La reciprocità del dono tra Padre e Figlio diventa reciprocità di dono tra i credenti e il Figlio. Egli non è solo "la vita", ma anche "la risurrezione".
Non si tratta però del linguaggio tradizionale dell'escatologia biblica e giudaica. «Qui il rapporto è invertito: il Figlio è la vita nel presente esistenziale di chi crede. [...] La vita eterna non è il termine della risurrezione, il suo esito, ma il dono già partecipato che la risurrezione finale [...] svelerà in pienezza» (M. Nicolaci, "Giovanni", ne I Vangeli, Milano 2015, p. 1403). Fare memoria dei defunti è sapersi già partecipi in fede e speranza di ciò che pure attendiamo.


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