La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 9/2016)
Gesù Cristo, Re dell'universo - XXXIV Dom. del T.O.
2Sam 5,1-3
Col 1,12-20
Lc 23,35-43
(Visualizza i brani delle Letture)
CHE È SERVIZIO
Il testo della prima lettura tratto da II Samuele 5,1-3 propone il patto tra Davide e le tribù d'Israele presso Ebron. Gli anziani ricordano a Davide le parole che il Signore gli ha rivolte e in forza delle quali è subentrato a Saul, primo re d'Israele: «Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d'Israele». L'espressione «tu pascerai il mio popolo» ci riconduce a un compito di cura, quello appunto del pastore che con tenerezza conduce il suo gregge verso pascoli ubertosi. L'immagine oggi ci dice ben poco.
Ma se proviamo a pensare a un ambiente ostile, in cui occorre di continuo spostarsi per offrire al bestiame cibo e acqua, se riacquisiamo i tanti luoghi biblici relativi a Dio stesso quale pastore d'Israele o, nel NT, a Gesù stesso pastore bello/buono, forse emergerà più chiaramente questo che ho già chiamato compito, dovere di cura. La metafora dunque si sposta dal pastore al re. Egli come il pastore precede la sua gente, la guida, l'accompagna. La metafora però si concretizza immediatamente in una figura di potere: «Tu sarai capo d'Israele». Come non riandare al discorso dissuasivo di Samuele alla domanda del popolo circa il darsi un re (cf 1Sam 8,11-18)? Può il potere, pure quello che promana dall'unzione, essere indenne da violenza, sopruso, limitazione della libertà altrui? La stessa parabola di Davide mostra le crepe inevitabili del potere che smarrisce la sua dimensione di delega.
La tradizione cristiana ha visto in Davide il progenitore del Messia. È in forza di questo rapporto che la liturgia ci propone l'investitura di Davide, la sua unzione. La solennità è despotica, riguarda cioè il Signore. Ed ecco la seconda lettura ci propone l'inno cristologico del capitolo 1 della lettera ai Colossesi. Il registro immediatamente cambia, perché l'avvio è nel segno della partecipazione al mistero di Cristo. L'inno si apre con un rendimento di lode al Padre, che ci ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce e ci ha trasferiti nel regno del Figlio. Di qui le due strofe, quella propriamente cristologica che lo esalta nella sua funzione cosmica; l'altra propriamente ecclesiologica che ne mostra l'azione salvifica sul suo corpo che è la Chiesa. Se la prima strofa lo accosta alla Sapienza della quale ripropone la presenza e la prossimità a Dio, la seconda lo dice testa/capo del corpo, pleroma, pienezza.
L'autore, che probabilmente recepisce un antecedente inno battesimale, disegna insomma la signoria, la regalità, il primato di Cristo, la sua efficacia salvifica, il suo ruolo cosmico ed ecclesiale di riconciliazione. Non stupisca il fatto che tanta enfasi celebrativa in cui la sinonimia delle espressioni sembra soprattutto sottintendere il ruolo di "testa/capo", kefale, proprio di Cristo Signore, venga accostata a uno stralcio del capitolo 23 di Luca. Lo scenario è quello della passione. Cristo è sospeso alla croce. Nudo e inerme è sottoposto al ludibrio di quanti lo provocano e irridono. Emerge il contrasto tra la presunta dignità messianica e la condizione del condannato. Lo sbeffeggiano pure i soldati invitandolo, se è il re dei giudei, a salvare sé stesso. In effetti, anche Luca registra il titolo apposto sulla croce: «Costui è il re dei giudei». Una lunga tradizione coglie nella croce il trono regale di Cristo. Di qui gli encomi della tradizione bizantina.
La lettura evangelica di oggi si iscrive certamente nel tema della regalità che la croce paradossalmente ripropone, rovesciando ogni schema potente. Non di minore importanza è però la diatriba tra i due condannati che gli stanno accanto, il cattivo e il buon ladrone. L'uno schernisce e provoca, l'altro lo redarguisce e chiede a Gesù di ricordarsi di lui quando entrerà nel suo regno. Il regno dunque è realtà altra da quello che ci si potrebbe aspettare. Non è la precarietà assoluta, lo scacco del condannato a inficiarlo. Egli resta nel pieno della sua regalità, anche infisso alla croce.
E le parole di Gesù, in risposta, lo confermano: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». L'affermazione di Gesù è solenne, autorevole. Ciò che egli afferma s'iscrive in ciò che lui è, il Figlio di Dio, il cui regno è di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace (così il Prefazio). La regalità cristiana ha come paradigma un re sconfitto che pure rivendica una sovranità altra, non affidata a eserciti o a funzionari, ma iscritta nel dare sé stessi per gli altri. Purtroppo rapidamente ce ne siamo allontanati. Ritornare all'annuncio del Regno, capire che alla radice esso è costitutivamente "servizio".
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Gesù Cristo, Re dell'universo
XXXIV Domenica del Tempo ordinario (C)
ANNO C – 20 novembre 2016
UN REGNO
Questa solennità che chiude l'Anno liturgico è entrata solo nel secolo passato nel calendario romano. Motivi politici hanno dettato una scelta che la riforma liturgica del Vaticano II, pur modificando ne certi aspetti, non è riuscita a riqualificare. Quella della regalità è una categoria complessa, difficile da declinare; si tratti di Dio, si tratti degli esseri umani. E se il Vaticano II in LG 36 ne ha dato una formulazione entusiasmante, restano pur sempre le contraddizioni del tradurla. La questione a monte tocca la signoria di Dio, la sua alterità, il potere, meglio la "pantocratoria", che lo connota. Ma poiché egli si è scelto un popolo di "re e sacerdoti" (Es 19,6), in questione è la partecipazione operativa alla sua regalità che, nel Figlio, ha il modello esemplare.
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