XXXIII Domenica del Tempo ordinario (C)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 9/2016)



ANNO C – 13 novembre 2016
XXXIII Domenica del Tempo ordinario

Ml 3,19-20a
2Ts 3,7-12
Lc 21,5-19
(Visualizza i brani delle Letture)


IN ATTESA
DELLA SUA VENUTA

La penultima domenica dell'Anno liturgico si apre con la lettura del profeta Malachia. Egli avverte circa l'avvento del giorno del Signore, giorno terribile, «rovente come un forno». L'immagine suggerisce l'idea di un fuoco purificatore che farà giustizia dei superbi e degli iniqui, distruggendoli alla radice. Mentre per coloro che temono il Signore, sorgerà benefico «il sole di giustizia» (cf Lc 1,78). Ci troviamo dunque dinanzi a una delle espressioni forti usate dai profeti (e da questo che è l'ultimo nell'elenco dei cosiddetti minori) per indicare il giorno finale e decisivo del giudizio di Dio sulla storia, giorno ambivalente di tenebra oppure di salvezza. L'immagine del fuoco ricorre nei loro scritti come caratterizzante la punizione divina. Si tratta dunque di un giorno tremendo in cui l'ira di Dio si abbatte sugli increduli. Esso è però a un tempo giorno di ripartenza consolante per i giusti, perché Dio vi inaugura il suo regno di giustizia e di pace.
Anche il NT farà propria l'espressione dandole una valenza cristologica, si tratti del giorno del figlio dell'uomo, del giorno di Cristo, del giorno del Signore o dell'ultimo giorno. Dunque uno scenario comunque terrificante, nel segno del giudizio ultimo e risolutivo.

Accenti apocalittici, la descrizione a tinte forti di eventi ultimamente definitivi, caratterizzano anche il brano evangelico tratto dal capitolo 21 di Luca. Troviamo in esso l'ultimo discorso di Gesù, relativo in gran parte alla fine di Gerusalemme. Gesù parte dalle parole ammirate relativamente al tempio, magnifico nella ricchezza dei volumi e dell'ornamentazione. Sappiamo trattarsi del terzo tempio. Quello di Salomone era stato distrutto dai babilonesi; quello di Zorobabele e Giosuè, costruito secondo la visione di Ezechiele, profanato e poi nuovamente dedicato, era stato distrutto e ricostruito da Erode il Grande. Questo tempio è quello che Gesù frequenta e di cui afferma non resterà pietra su pietra.
La domanda ovvia di quelli che gli stanno attorno è relativa al quando ciò avverrà e quali saranno i segni premonitori dell'evento. Gesù glissa la domanda esortando li a non lasciarsi ingannare, a non dare valenza rivelativa a segni che tali non sono. Prima della fine avverranno cose tristissime, in parte imputabili alla natura, in parte imputabili alla malvagità umana. L'intreccio di terremoti, carestie, pestilenze, di guerre e di segni terribili e grandiosi, sarà preceduto dalla persecuzione di cui i suoi seguaci saranno fatti segno.

Luca forse reinterpreta le parole di Gesù anteponendo a tutto la vicenda della comunità cristiana, le persecuzioni di cui sarà fatta oggetto. E alla comunità fa giungere il messaggio rincuorante del Maestro: egli darà loro parola e sapienza, cosicché nessuno potrà controbatterli. Ciò che traghetta la comunità perseguitata e la rende forte nella fede non esclude però il parossismo della persecuzione. A tradirli saranno gli stessi parenti e amici e alcuni perderanno la loro stessa vita. L'odio di cui saranno oggetto a ragione del suo nome non avrà come esito la loro perdizione. Neppure un capello sarà perduto. L'invito è dunque alla perseveranza. Grazie ad essa salveranno la loro vita.
Gli scenari che Gesù disegna nella ricostruzione di Luca riguardano certamente la Chiesa nascente, i discepoli della prima ora. In verità la storia della comunità cristiana vede di continuo il loro riproporsi. Essere odiati a causa del suo nome non è privilegio della prima generazione cristiana. Un nugolo di testimoni e di martiri ci accompagna nell'arco di duemila anni e, sempre, nei momenti acuti di crisi, si scrutano i segni, si interrogano gli eventi, ci si scopre millenaristi e apocalittici. Il nostro tempo non fa eccezione. E non solo per il moltiplicarsi del martirio, ma anche per lo sconforto e lo sgomento che ci coglie nell'incapacità nostra di discernere il senso degli eventi, di leggere sino in fondo i segni dei tempi. L'Anno liturgico si apre e si chiude nel segno della venuta del Signore, quasi a ricordarci la necessaria riserva escatologica; ci avverte circa l'indole nostra di popolo peregrinante.

Eppure, occorre abitarlo e orientarlo il nostro tempo. Ci è di pungolo la lettura apostolica, tratta ancora dalla II lettera ai Tessalonicesi. Paolo, che si propone loro come modello, ricorda infatti di non essere rimasto ozioso nel suo soggiorno a Tessalonica; di non aver mangiato gratuitamente il loro pane, ma d'aver lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso. Dichiara d'averlo fatto soprattutto per proporsi loro come modello. Troviamo qui la locuzione divenuta proverbiale: «Chi non vuole lavorare, neppure mangi». Lo scenario è quello di un'attesa disordinata e disincarnata. Di un'attesa che rifugge dal lavoro e dall'impegno. Donde l'esortazione a guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.
Un'ultima battuta. Le pietre distrutte del tempio suggeriscono forse la fine di un culto formale, di un servizio sacerdotale reso attraverso vittime cruente; l'attesa passiva e indolente suggerisce, malgrado tutto, l'arroccarsi su un analogo stile, inficiando la radicalità altra e nuova della presenza e del servizio che i credenti sono chiamati a rendere. Il Signore torna, tornerà e farà nuove tutte le cose. Se i tempi e i modi del suo ritorno ci sono ignoti, ci è noto il dovere di orientare a lui la storia, di camminare spediti nel segno della perseveranza.


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