XXXI Domenica del Tempo ordinario (C)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 9/2016)



ANNO C – 30 ottobre 2016
XXXI Domenica del Tempo ordinario

Sap 11,22-12,2
2Ts 1,11-2,2
Lc 19,1-10
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L'INVITO DI GESÙ

I versetti della prima lettura, tratti dal libro della Sapienza, si iscrivono nella terza parte relativa all'agire della Sapienza stessa nella storia. La liturgia di questa domenica va oltre la loro collocazione letteraria. Ciò che risulta immediatamente evidente è l'affermazione circa il rapporto d'amore, anzi di compassione, che lega Dio al mondo che ha creato e alle creature che lo abitano. Dio ama ciò che ha posto in essere e non prova disgusto per nessuna delle cose che ha chiamate all'esistenza. Basterebbe questo versetto per mettere in discussione attitudini ben radicate, atteggiamenti diffusi. Di tante, troppe cose proviamo disgusto. Forse l'oggetto primo del nostro disgusto siamo noi stessi. Ci mette in imbarazzo il nostro limite, la nostra finitezza.
Spesso imputiamo alla nostra insufficienza le asperità e incoerenze del nostro e dell'altrui agire. Facilmente dimentichiamo che quanto esiste, il limite che ci connota, partecipa dello stesso spirito di Dio. Niente perciò è intrinsecamente impuro, alieno a noi e a Dio stesso. Quanto a noi, sue creature - malgrado la finitudine poeticamente affidata all'imponderabilità della polvere o alla leggerezza di una stilla di rugiada - l'autore del libro della Sapienza non ha dubbi: Dio ci ama di un amore compassionevole che soccorre il nostro peccato, ci corregge e ammonisce poco a poco così che cresca la nostra fede in lui.

La fragilità del nostro giudizio ritorna altrimenti nel brano della II lettera di Paolo ai cristiani di Tessalonica. Scrivendo probabilmente nella seconda metà del 50 - I e II Tessalonicesi sono le prime in ordine di tempo dell'epistolario paolino - l'Apostolo vuole ricondurre i membri di quella Chiesa a un atteggiamento più equilibrato circa il problema che li agita: la venuta del Signore e i segni che l'accompagnano. Il ritorno del Signore è atteso, infatti, come imminente in una cornice apocalittica che accomuna il giudaismo coevo e la comunità cristiana primitiva. Paolo esorta però i Tessalonicesi a non lasciarsi turbare da quanti favoleggiano sulle modalità e i tempi della parusia. Nei versetti oggi proposti afferma che ne va di mezzo la stessa vita cristiana. Da qui la preghiera incessante perché il Signore renda i Tessalonicesi degni della sua chiamata, porti a compiutezza il loro proposito, renda operosa la loro fede, così che sia glorificato il nome del Signore in essi e lui in loro.
Diversamente ma sintonicamente le due letture preparano la proclamazione evangelica. Nel contesto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme siamo giunti alla città di Gerico. Chiunque si sia recato in Terrasanta e sia entrato in questa che è considerata una delle più antiche città del mondo, avrà avuto mostrato il sicomoro,• succedaneo memoriale dell'albero su cui, secondo la pericope odierna, sarebbe salito Zaccheo. In effetti i pellegrini sostano presso un albero grande e rigoglioso, i cui frutti dolciastri, benché assai più piccoli, evocano il fico. Non è difficile immaginarne la funzione umbratile nelle terre calde e assolate della Palestina.
Quanto a Zaccheo, non lo si può considerare un uomo per bene, anzi! Appartiene alla cerchia più invisa, quella dei pubblicani. C'è un indubbio contrasto tra il suo ruolo sociale - "capo dei pubblicani e ricco" - e la sua piccola statura. Un uomo "potente", che fa il buono e il cattivo tempo esigendo le tasse, non riesce a emergere dalla folla così da vedere Gesù, cosa che, invece, ardentemente desidera. Da qui la scelta di arrampicarsi, appunto, sul sicomoro. Gesù deve proprio passare da lì. Ed è su questo obbligato passaggio che egli confida. Certo non si aspetta d'essere invitato a scendere dall'albero e a darsi da fare, perché Gesù sarà suo ospite quel giorno.

Non è la prima volta che Gesù sta a mensa con persone di dubbia reputazione. E, ovviamente, la cosa non passa inosservata a chi ritiene di potere e di dover distinguere tra "giusti" e "peccatori". In verità il desiderio di Zaccheo, la sua voglia di vedere Gesù ad ogni costo, ci avvertono già di un disagio, di una sofferenza nascosta. Forse il capo dei pubblicani non si è realizzato appieno nella professione che esercita; forse gli pesano tanto le ricchezze così accumulate, quanto la riprovazione degli altri. Comunque sia, è proprio lui che Gesù sceglie di visitare. Egli è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto. Come ci ricorda un singolare versetto di Giovanni, Dio non ha mandato il Figlio per condannare il mondo, ma per salvarlo (cf Gv 3,17).
La risposta di Zaccheo è conseguente alla dilezione da cui si è sentito avvolto. Da qui la scelta di donare ai poveri metà delle sue ricchezze; la decisione di restituire il quadruplo a coloro che ha derubati. Zaccheo si fa così interprete della radicalità operosa della sequela. Non si può stare a mensa, accogliere Gesù nella propria casa e seguitare a vivere come prima. E il segno tangibile della conversione sta proprio nel compartire gioiosamente quanto si è ricevuto. Non si tratta, ancora una volta, di disprezzare i beni di questo mondo, al contrario di valorizzarli per quello che sono. Accogliere la chiamata, l'invito di Gesù è sperimentare la gioia conviviale, il condividere con gli altri quanto ci è stato donato, rinunciando - quanto è difficile! - alla stolta pretesa di essere noi a giudicare. L'amoroso farsi prossimo di Dio, la sua infinita capacità di perdonare cambia dunque, e davvero, la nostra vita; incrementa e rende fruttuosa la nostra fede.


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