XXX Domenica del Tempo ordinario (C)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2016)



ANNO C – 23 ottobre 2016
XXX Domenica del Tempo ordinario

Sir 35,15b-17.20-22a
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-174
(Visualizza i brani delle Letture)


LA PREGHIERA
CAMBIA LA VITA

Ancora scenari di preghiera attraversano le letture. In mezzo il brano della lettera a Timoteo, commosso e drammatico consuntivo della vicenda dell'Apostolo: ha combattuto la buona battaglia, ha terminato la sua corsa, ha conservato la fede.
Il libro del Siracide - non incluso dal canone ebraico e perciò perduto nella sua lingua originale, fatta eccezione per i frammenti via via ritrovati - ha una complessa storia compositiva. Annoverato tra i libri sapienziali, appartiene al II secolo. Il nostro brano si iscrive nella sezione relativa al culto autentico e alla preghiera del povero (Sir 34,18-36,17). La selezione proposta dal capitolo 35 riguarda appunto quest'ultimo tema intrecciandolo con quello della giustizia. Dio non ha preferenze. Non è parziale a danno del povero e dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano, né la vedova e accoglie la preghiera di chi la soccorre.
Nel contesto della cosmologia ebraica e della sua distinzione tripartita tra terra cielo e inferi, a significare la potenza di lancio della preghiera, il testo usa la curiosa espressione: «Arriva sino alle nubi». Relativamente a Dio che sta in alto, nei cieli, appunto, le nubi rappresentano quanto gli è più prossimo. Questa capacità di raggiungerlo quanto più da vicino è anche maggiore per la preghiera del povero che, addirittura, «attraversa le nubi». Insomma, la preghiera di chi è nel bisogno non cessa la sua carica sino a che Dio non l'accolga «dando soddisfazione ai giusti e ristabilendo l'equità».
Torna dunque martellante, oltre il tema della preghiera, quello della giustizia. Anche Paolo attende la corona di giustizia e indica Dio come giusto giudice. Temi tutti che, proseguendo nella lettura del capitolo 18, la parabola del fariseo e del pubblicano accoglie e rielabora.

Gesù è ormai prossimo a Gerusalemme. La parabola ci porta già al tempio verso cui è diretto ed egli la propone proprio per mettere in crisi quanti nutrono una presunzione di giustizia e perciò sono boriosi e arroganti. Niente di più efficace che contrapporre un fariseo e un pubblicano e la diversa consapevolezza di sé che anima la loro preghiera. Sadducei, farisei, scribi sono gruppi che incontriamo spesso nel NT. Incontriamo pure i pubblicani, ossia gli esattori delle tasse. Come agenti del fisco erano presenti in tutto l'impero romano e derivavano il nome proprio dal fatto di lavorare per il tesoro pubblico. La loro cattiva fama nasceva sia dall'essere a servizio di una potenza straniera, sia dalla disinvoltura con cui intervenivano, a loro favore, sulla quantificazione ed esazione dei tributi. Di pubblicani ne incontriamo diversi. Passano alla sequela di Gesù: Matteo, chiamato a seguirlo mentre sta seduto al banco delle imposte (Lc 5,27-28) e Zaccheo, agente capo delle tasse a Gerico, che in tutta coerenza restituirà il mal tolto (Lc 19,1-10).
Se i pubblicani, disprezzati dal popolo per la scelta di campo e per le loro ruberie, entrano a pieno titolo nella categoria di quelli a cui è principalmente diretto il ministero di Gesù (cf Lc 5,31-32), i farisei appartengono invece a uno dei movimenti religiosi d'Israele, alla stregua dei sadducei o degli esseni, mentre gli scribi sono piuttosto "maestri", tecnici dell'interpretazione e dell'insegnamento. Dinanzi all'aristocraticità conservatrice e politicizzata dei sadducei, i farisei rappresentano l'innovazione. Equiparano la Legge alla tradizione, dando le lo stesso peso. Ma il loro insistere sulla sua osservanza, moltiplicandone i precetti, giustifica la fama che li caratterizza nei vangeli, alla fine facendone proverbiali figure negative. Ci si chiede se Gesù sia stato davvero avverso ai farisei. Certo sono oggetto di numerose invettive. Ed è chiara la condanna della loro presunzione come pure di ogni osservanza precettistica e formalistica. In ciò è epigono dei profeti che più e più volte hanno gridato contro una pratica e un culto formali, scisso da ogni interiorità, dalla sincera confessione della propria indigenza.

La parabola ci mostra dunque i due in preghiera nel diversissimo loro atteggiamento. Orgoglioso a oltranza, il fariseo si proclama giusto e santo a partire dalla sua stessa condizione; cosciente del suo limite, il pubblicano implora invece pietà battendosi il petto. Quest'ultimo verrà giustificato, l'altro no; ed è giustificazione che passa non da un atto formale, ma viene direttamente da Dio. Gesù chiude la parabola affermando: «Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». Ritorna prepotente il tema lucano del rovesciamento, del sovvertimento di quanto appartiene alla gerarchia di valori etici o sociali indebitamente istituita.
In questa proclamazione della signoria di Dio e dei valori altri del Regno non si pensi però a una "umiliazione" ideologica, alla fine tesa ad annientare le persone nel loro intrinseco valore. Umiliarsi è "sciogliersi a terra", riconoscersi nella propria creaturalità; non è rimettere ad altri, passivamente, la propria volontà. La massima evangelica va dunque compresa nel suo pieno significato: stigmatizza il parossismo dell'autoesaltazione. Eppure ha fatto da alibi a quell'ideologia pseudo-spirituale che della negazione di sé ha fatto una virtù, così incrementando relazioni indebite, del tutto estranee alla giustizia del Regno e alla dignità delle creature umane, tutte a immagine di Dio.


--------------------
torna su
torna all'indice
home