XXIX Domenica del Tempo ordinario (C)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2016)



ANNO C – 16 ottobre 2016
XXIX Domenica del Tempo ordinario

Es 17,8-13a
2Tm 3,14-4,2
Lc 18,1-8
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PREGARE
SENZA STANCARSI

Il capitolo 17 di Luca mostra nel suo sviluppo un infittirsi di interlocutori e di questioni, mentre la tematica escatologica si fa più esplicita. In questione è il "regno di Dio", la sua presenza già qui e ora, la necessità di aderirvi. In questione è il "giorno del Signore" che nelle parole di Gesù è il giorno del "Figlio dell'uomo", giorno improvviso, che piomba rapido, drammatico, ed esige una scelta ultima, a suo favore o contro. Il capitolo 18 si colloca sulla stessa linea. Lo apre la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna; a seguire quella del fariseo e del pubblicano; le parole di Gesù sul regno di Dio, i bambini e il notabile ricco; il terzo annuncio della passione; la guarigione di un cieco. La liturgia ce ne propone i vv. 1-8, e dunque la parabola della vedova la cui molestia ottiene dal giudice malvagio quanto richiesto. A vincere è la sua tenacia. Meglio accontentare una donna importuna, se questa è la condizione per liberarsene. La parabola però serve a introdurre il tema della preghiera, della preghiera insistente.

Secondo un gioco antitetico, più volte presente nel vangelo di Luca, se il giudice disonesto accoglie la supplica assillante, a maggior ragione Dio ascolterà quanti lo invocano giorno e notte. L'attesa sta per compiersi. Dio farà celermente giustizia, rapidamente accoglierà la domanda a lui rivolta. Comprendere sino in fondo la parabola è calarsi nella condizione della vedova. Le donne nel suo stato erano particolarmente deboli. Non era facile per esse fruire dei beni del marito defunto. E questo sembra essere il caso. La donna, si sa, nel mondo tardo-antico non gode di diritti. La rappresenta sempre un maschio e questo spesso non gioca a suo favore.
Se poi la figura sia allegorica, è difficile dirlo. Verginità, nozze, vedovanza hanno sicuramente una valenza simbolica se riferite a Israele (e poi alla Chiesa). E tuttavia non pensiamo si possa cavalcare a oltranza l'istanza simbolica, quasi la vedova fosse espressione di un Israele che anela a ritrovare il rapporto nuziale con il suo Dio. Più semplicemente, crediamo che la vedova, com'è nello stile di Luca, impersoni con efficacia quei poveri ed emarginati veri destinatari della liberazione messianica. Sicuramente è felice assumerla come termine di conflitto con un uomo potente, palesemente non timorato di Dio. La Legge, infatti, prescrive una specialissima attenzione alla vedova, tutt'uno con l'orfano e lo straniero (cf Dt 14,28-29; 24,17; 26,12-13; 27,19).
In età patristica la vedova, quella vera, cioè che ha conosciuto un solo uomo, verrà assunta come espressione della preghiera incessante, compito suo precipuo già in seno alla comunità apostolica (cf 1Tm 5,5).

Dunque, la rivendicazione di un diritto come paradigma di preghiera ardente e insistente; la decisione del giudice ingiusto come avallo del misericordioso chinarsi di Dio sulla domanda di salvezza a lui indirizzata dal suo popolo. Comprendiamo insomma perché la prima lettura ci mostri anch'essa un paradigma efficace di preghiera, certo lontano dalla nostra contestualità e sensibilità. Tratta dal libro dell'Esodo, propone uno scenario di guerra. Nella sua peregrinazione esodiale Israele si scontra con un gruppo di abitatori del deserto intenzionati a bloccarne il cammino. La terra dove scorrono latte e miele non si raggiunge pacificamente, anzi! L'episodio proposto riguarda Amalèk contro il quale Israele scende in battaglia. Dio è con il suo popolo e ne accoglie la supplica. Essa è plasticamente resa dalle braccia alzate di Mosè, che se salde garantiscono la vittoria, se cedevoli la sconfitta. A sorreggere Mosè, a tenergli alzate le braccia ci sono Aronne e Cur per un giorno intero sino al tramonto del sole, sino alla vittoria completa di Giosuè sul suo antagonista. Una domanda però rompe la corrispondenza tra la lettura veterotestamentaria e quella profetica. È una domanda inquietante: «Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
È domanda che ci accompagna nella storia e torna imperativa nei momenti di crisi. Il Signore Gesù al suo ritorno troverà ancora chi crede in lui? Ci investe una sorta di rassegnato sconforto. La crisi, proprio perché tale, mostra vincenti gli anticristo. Sulla scia della parabola non è difficile intuire un degrado morale che nel nostro tempo è particolarmente evidente. Insabbiare un processo, istruirlo male, emettere sentenze assolutamente soggettive e inquietanti sono il segno più evidente di un'incapacità d'intessere civili e corrette relazioni. La crisi della giustizia è la punta dell'iceberg nella crisi che viviamo. La fede è dono che va coltivato, alimentato. Il degrado non la favorisce. Se investe la comunità ecclesiale provoca fughe disastrose, disimpegni crescenti, ricerche di salvezza altre, alienanti e aleatorie.
Da qui la legittimità per noi ancora di chiederci se il Figlio dell'uomo ci troverà a lampade accese e vigilanti, ovvero distratti e alienati, persi del culto di altri dei. Se la donna della parabola è emblema d'Israele e della Chiesa, occorre che nuovi Aronne e nuovi Cur le sostengano le braccia sicché con forza possa invocare il Signore Gesù perché venga (cf Ap 22,20). Diventa imperativa l'esortazione a Timoteo: «Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 4,2)


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