La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2016)
XXVIII Domenica del Tempo ordinario
2Re 5,14-17
2Tm 2,8-13
Lc 17,11-19
(Visualizza i brani delle Letture)
CHE PREMIA LA FEDE
Nel caso di Eliseo il lebbroso è uno straniero, un comandante dell'esercito siriano. Una giovane prigioniera ebrea a servizio della moglie parla del profeta come capace di mondarlo. Da qui il curioso portarsi di Naamàn presso il re d'Israele, lo sgomento di costui e, finalmente, l'incontro con il profeta. Naamàn protesta dinanzi all'apparente assurdità di bagnarsi nel Giordano e tuttavia alla fine obbedisce. La nostra lettura parte dal suo immergersi nel fiume sette volte e dall'uscirne con «il corpo di un ragazzo». Torna quindi da Eliseo per esprimergli con doni la sua riconoscenza. Il profeta non può accettare compensi per quanto ha operato. Ma Naamàn non è solo mondato nella carne, è mutato nel cuore. Ha acquisito la fede nel Dio d'Israele. Da qui la richiesta di portare con sé quanta terra ne porta una coppia di muli così da servirsene come supporto da cui offrire sacrifici all'unico Dio e Signore.
Guarigione, nel senso globale del termine, e riconoscenza sono presenti nella narrazione di Luca. Siamo ormai quasi alla fine del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Le folle che lo seguono crescono e quello di Gesù sembra essere una sorta di nuovo esodo. Gesù attraversa la Samaria e la Galilea. Ed è in un villaggio di quest'ultima regione che gli si fanno incontro dieci lebbrosi. Non sempre Gesù osserva minuziosamente le regole (cf Lc 13,12-14). Lo fa questa volta e, del resto, lo fanno anche i lebbrosi che si fermano a distanza. La loro invocazione lo riconosce maestro, ma le loro parole sono quelle che l'israelita credente rivolge a Dio nel bisogno: «Abbi pietà di me!». Gesù non compie su di essi nessun gesto che implichi un qualsiasi contatto. Piuttosto, secondo la Legge, li rinvia ai sacerdoti. Sulla strada i dieci vengono mondati. È, dunque, la potenza di Gesù che opera il miracolo. Dei dieci soltanto uno torna indietro e quest'uno è un samaritano. Gesù non manca di rammaricarsi per l'assenza degli altri e la presenza, invece, dell'unico straniero. Ma, come è avvenuto per Naamàn, il cuore dello straniero è stato risanato non meno della sua carne. Lo vediamo prostrarsi dinanzi al maestro che gli dice: «Alzati e va': la tua fede ti ha salvato».
Non poche volte nella Scrittura, Antico e Nuovo Testamento, la fede degli israeliti si rivela meno forte di quella di chi non ha il privilegio di appartenere al popolo dell'alleanza. Nel vangelo di Luca ciò accade in diversi contesti. Così pure negli altri vangeli. A partire dalla fede vediamo in atto un paradigma antropologico globale che non separa corpo e spirito, ma li lega inseparabilmente. Sicché la guarigione fisica è sanazione del corpo e la sanazione del corpo è tutt'uno con la salvezza. La vera guarigione, senza indulgere a dualismi, è quella che mette tutto l'essere umano, uomo o donna, davanti a Dio per riconoscerne la signoria. La fede è rimettersi a lui, affidarsi a lui, oltre e malgrado il dispositivo di guarigione suggerito o stabilito. È la fede, insomma, che guarisce, la sola fede. Ma questo dono divino non conosce confini, non corre secondo sentieri obbligati. Anzi la gratuità di Dio si posa misericordiosa proprio su chi è povero, emarginato, "diverso", quale sia la sua diversità.
Nella fattispecie la guarigione premia la fede di uno scismatico, di qualcuno che sta fuori dall'ortodossia giudaica. Come ben sappiamo dalla densa pagina di Giovanni 4 non corre buon sangue tra giudei e samaritani. Gesù stesso, in Lc 9,53, è stato allontanato da un villaggio samaritano proprio perché giudeo e perché diretto al tempio di Gerusalemme. Ma la salvezza di cui è portatore non fa distinzioni di sorta. Egli è il salvatore di tutti. Il samaritano guarito non si esprime certo con le formule di fede proposte nella 2Tm 2,8-13. Mostra, analogamente, il concretizzarsi del disegno di Dio per quelli che lui ha scelto: raggiungere la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Ecco - non lo ripeteremo mai abbastanza - Dio vuole tutti salvi e nessuno è escluso dalla sua salvezza. Dinanzi all'egoistico ripiegare su se stessi, di singoli e di comunità, le letture di oggi ci riconducono sia allo spessore antropologico della salvezza, sia alla sua universalità. Ci mostrano insieme come la fede, grande dono di Dio, germina nelle più diverse contestualità umane. La Chiesa non può innalzare muri o erigere paletti. Deve annunciare e testimoniare la salvezza. E persino accettare che essa abbia, per molti, un nome diverso da quello del Dio di Gesù Cristo.
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XXVIII Domenica del Tempo ordinario (C)
ANNO C – 9 ottobre 2016
UNA GUARIGIONE
Un analogo miracolo di guarigione lega la prima lettura e la lettura evangelica. La guarigione operata da Eliseo nel secondo libro dei Re ha una particolare rilevanza sia in ragione dell'identità del guarito, sia in ragione della malattia dalla quale è mondato. Quest'ultimo verbo è appropriato, trattandosi della lebbra, malattia endemica nel mondo antico e purtroppo ancora presente in tante parti del mondo. Nella Scrittura è considerata particolarmente grave e invalidante, perché rende "impuri" e perciò esclude dai normali ritmi di vita del popolo di Dio. Troviamo indicazioni in Lv 13,45-46 e in Lv 14. Considerata come un castigo, è sicuramente tale nella vicenda di Maria, sorella di Mosè, colpita dalla lebbra a motivo del suo mormorare contro il fratello in Nm 12,1-15. La punizione della profetessa è temporanea e Israele interrompe il suo esodo sino a che non sia guarita.
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