XXVII Domenica del Tempo ordinario (C)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2016)



ANNO C – 2 ottobre 2016
XXVII Domenica del Tempo ordinario

Ab 1,2-3;2,2-4
2Tm 1.6-8.13-14
Lc 17,5-10
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DONARSI SENZA
CALCOLI O SECONDI FINI

Da Abacuc sono estrapolati alcuni versetti dai primi due capitoli del suo libro. Lo sfondo è quello della lotta tra l'impero assiro, ormai in declino, e quello babilonese in ascesa. Dinanzi all'oppressione del suo popolo il profeta interpella Dio e gliene chiede ragione. Ad assoggettarlo non sono genti più giuste e sante, ma un popolo ancora più iniquo. Il libro si apre con due lamenti a cui fanno eco due oracoli. La nostra lettura li intercetta in parte. Dal capitolo primo mutua il lamento: il profeta invoca l'aiuto divino, chiede a Dio perché rimanga "spettatore dell'oppressione"; dal secondo mutua l'oracolo circa un sicuro ribaltamento della situazione: «Ecco soccombe colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede».
Conosciamo bene quest'ultima espressione, recepita nella lettera ai Romani e nella lettera ai Galati. Contrappone la fragile fiducia dell'empio alla ferma fede del giusto, il quale confida nel potere di Dio e, dunque, parteciperà di ciò che costituisce la sua qualità profonda, la vita appunto. Potremmo aggiungere che Dio non è spettatore indifferente. Né indifferente è la fede nella costruzione della storia umana. La lettura apostolica, anche a ragione dell'estrapolazione dei versetti, non ha espliciti punti di contatto con il testo profetico e con quello evangelico. La fede, pure evocata, non è qui proposta nella stessa dinamica fiduciale.

La preghiera rivolta a Gesù dai discepoli: «Accresci in noi la fede!» è consequenziale ai versetti 1-4, relativi alla vita della comunità. Gesù ha parole durissime contro coloro che in essa provocano scandali, pur se ne conosce l'inevitabilità. In particolare è odioso scandalizzare i "piccoli". A queste parole aggiunge quelle relative all'ammonizione e al perdono di chi reca offesa all'altro. Lo ricordiamo, sia come necessaria contestualizzazione del brano proclamato, sia per la pertinenza che queste parole hanno, ai nostri giorni, con il tema dello scandalo e con quello dell'offesa e del perdono, da praticare secondo l'infinita capacità di perdonare propria di Dio.
Tutto ciò turba i discepoli. Da qui la loro domanda. La risposta è paradossale. Gesù afferma infatti che se la loro fede fosse quella di un granello di senape, ossia di un seme piccolissimo, basterebbe a sradicare un gelso, ossia un albero forte e potente, e a radicarlo in mare. Detto altrimenti, la fede può realizzare l'impossibile. Chi vive di fede, può compiere opere grandi. Ma a correttivo del potere che soggiace alla fede e del pericolo che l'averne consapevolezza può costituire, l'ammonimento paradossale, ancora a beneficio dei discepoli e di quanti, noi stessi, siamo sulla linea della loro sequela.
Più volte nel vangelo di Luca la comunità ci trasmette il modello di Cristo servo. Egli indica ciò che attende il discepolo fedele anche attraverso la parabola del padrone che, tornato dalle nozze, premierà quei servi che trova vigilanti. Mettendo in atto un paradigma sovversivo, indossato un grembiule, li farà sedere a tavola e si porrà a servirli (cf Lc 12,36-37). Nello stesso vangelo, nel contesto della sua cena ultima, in polemica con i moduli vigenti di governo e di potere, Gesù afferma: «Tra di voi chi è più grande diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve». Egli, infatti, sta in mezzo a loro «come colui che serve» (Lc 22,26-27).

Nel brano odierno servo e padrone sono ricondotti all'ordinarietà relazionale di una società disuguale. Non solo il servo ha da imbandire la mensa al suo padrone, ma non dovrà aspettarsi gratitudine avendo operato secondo il suo compito. Può sembrare duro vedersi riproporre un paradigma di assoluta disparità e ineguaglianza. E tuttavia in questione non è tanto uno schema sociale da conservare immutato, quanto vaccinare i discepoli dal virus, dal delirio di onnipotenza che serpeggia, mai decisamente abbandonato, in tutto il vangelo e nello stesso prologo degli Atti. La sequela - che è sempre servizio - non comporta potere. Non basta essere discepoli, appartenere ai dodici, per considerarsi più importanti degli altri. Il privilegio della chiamata e della missione iscrive piuttosto nel paradigma del farsi carico, del prendersi cura. Nessuna esaltazione di sé, nessun protagonismo. Essere "servi inutili", ossia senza importanza e senza valore, vuoi dire riconoscere che il dono ricevuto non pone su un piedistallo né è assimilabile alle forme politiche del potere. Le parole di Gesù, insomma, restano iscritte in un modello di coerenza, tanto più paradossale se si riflette su un dettaglio.
La 2Tm 1,6 usa il termine charisma per indicare il dono di Dio che Timoteo ha ricevuto per l'imposizione delle mani dell' Apostolo. Lc 17,9 usa il termine charis per indicare la gratitudine che il padrone non ha verso il suo servo. In verità, oltre la paradossalità contestuale, sappiamo bene che la grazia di Dio si riversa in abbondanza su tutti noi e su noi tutti si riversano i suoi doni. Forse non è male, nel ricorso restrittivo al termine dono, riferito soltanto a Timoteo, ricordare che la charis - gratuità, benevolenza, grazia, aver caro - ha nel NT uno spettro inclusivo e accomunante. L'essere "semplici servi" (così BJ), se denuncia l'insidia di un potere, quale che sia, apre pure alla considerazione della comune dignità cristiana, partecipe della regalità di colui «servire al quale è regnare» (LG 36).


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