XXVI Domenica del Tempo ordinario (C)



La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2016)



ANNO C – 25 settembre 2016
XXVI Domenica del Tempo ordinario

Am 6,1a.4-7
1Tm 6,11-16
Lc 16,19-31
(Visualizza i brani delle Letture)


LA SFERZATA DI GESÙ
CONTRO LA RICCHEZZA
Di nuovo ci viene riproposto un brano di Amos. Siamo ancora in viaggio verso Gerusalemme. Il tema è sempre quello della ricchezza e della sua ricaduta in ordine al Regno. Il profeta grida il suo sdegno contro il popolo stoltamente impegnato a godersi la vita mentre incombe il castigo divino. Rude guardiano di pecore ed estraneo ai circoli profetici, egli inveisce contro uno stile di vita dissoluto ed estetizzante, fatto di cibi e unguenti raffinati, di musica e di danza, in cui non c'è più memoria dell'identità teologica del popolo che Dio si è scelto. Questa autoreferenzialità mal fondata, questo vivere vuoto e inconcludente, ripudiando Dio stesso e la sua alleanza, avrà il suo esito nella deportazione e nell'esilio.

Ai banchetti evocati dal profeta, il testo evangelico accosta ora quelli del ricco alla cui porta, inascoltato, stava a chiedere l'elemosina il poverissimo Lazzaro. La parabola si sviluppa nella contrapposizione in vita e in morte di questi due personaggi. Il ricco è senza nome; al contrario, del povero ben conosciamo il nome divenuto proverbiale. E questo già fa la differenza. Sulla crapula del ricco e l'indigenza del povero cade l'ineluttabilità della morte. Ed ecco la situazione è invertita. Gli angeli portano Lazzaro «accanto ad Abramo». Il ricco invece è portato negli inferi e lì sta tra i tormenti. Nell'immaginario escatologico, comune all'Israele del tempo, è possibile al ricco vedere la beatitudine di Lazzaro. Da qui la domanda ad Abramo perché lo invii a bagnargli le labbra. Le profondità degli inferi sono però precluse a quelli che sono già nel seno di Abramo. Questi, pur chiamandolo "figlio", non accoglierà neanche la seconda richiesta del ricco: quella di inviare Lazzaro perché avverta i suoi cinque fratelli, così che possano cambiare vita.
Potremmo osservare come il tema di fondo sia proprio quello di una ricchezza che non garantisce sicurezza, anzi. Godersi la vita, per quanto gradevole, alla fine non basta. L'escatologia giudaica coeva a Gesù, benché variegata nelle sue posizioni, ipotizza anche una condizione altra, in cui si riceve il premio e il castigo proporzionalmente all'esistenza condotta. Del ricco conosciamo la durezza di cuore, l'indifferenza nei confronti del povero. Più misericordiosi di lui quei cani - che si cibano degli avanzi caduti dalla mensa (cf Mt 15,27). Essi almeno gli leccano le piaghe. Gesto di pietà, forse, che accresce però l'impurità del povero, incrementando l'offesa alla sua dignità. Di Lazzaro, invece, non sappiamo nulla. La sua povertà è sufficiente perché Dio lo esalti e gli conceda quanto gli è stato negato in vita. Siamo dunque ancora sulla linea dell'esaltazione degli umili e dei poveri (Lc 1,51-53), veri protagonisti del Regno. Ma siamo anche sulla linea di una comunità che ragiona sugli eventi che l'hanno costituita e li commenta e li elabora anche polemicamente.
La conclusione della parabola chiama in causa, alla richiesta del ricco d'informare i congiunti, il dono che Dio ha già fatto al suo popolo. La Legge e i profeti offrono già una comprensione chiara di ciò che veramente conta nel disegno di Dio. La salvezza sta già nelle pieghe della Parola che Dio ha indirizzato al suo popolo. E poiché il ricco ne afferma l'insufficienza e invoca che, a farsi tramite del premio e del castigo che tutti attende, sia qualcuno che ritorni in vita, la risposta d'Abramo è: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti». Certo, queste parole suggeriscono la presa d'atto di Gesù stesso circa l'incredulità degli interlocutori anche di fronte ai miracoli più sorprendenti. Ma è chiaro che la comunità, nelle parole attribuite ad Abramo rivive la sua esperienza. Essa nasce dalla Pasqua, ossia dall'esperienza del Risorto. Quanto nella parabola è paradossale provocazione la comunità l'ha vissuto e sperimentato. Eppure ciò non è stato sufficiente perché tutti credessero in Gesù di Nazaret, Messia e Signore, risuscitato nella potenza dello Spirito.

Luca insomma stende il suo racconto, ma oltre il racconto sta la comunità che lo elabora e rielabora. Il che però ci riporta ancora ad un altro elemento. La fede non ha bisogno di espedienti eclatanti. I miracoli sono superflui o, quanto meno, non necessari. Basta la Parola a nutrire e ad edificare la comunità. L'evento fondante è quello di un Dio comunicativo che ci interpella nel Figlio. Il resto è un surplus che può anche non esserci. Bastano, dunque, Mosè e i profeti. Basta la nudità dell'Evangelo. Basta ciò che ne costituisce il nocciolo duro e che, in questa domenica, di nuovo ci viene riproposto: «Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (Canto al vangelo).
La kenosi del Figlio ci diventa paradigma di uno scambio che sovverte il nostro limite e ci esalta. La metafora del seno d'Abramo - bellissime le tante riproposizioni bizantine - dice la meta che ci attende. L'amore viscerale del Padre, tramite il Figlio, ci vuole partecipi della sua stessa vita. La preghiera colletta - come ignorarla nell'Anno della misericordia? - recita: «O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia perché, camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna».


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