XXV Domenica del Tempo ordinario (C)



La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2016)



ANNO C – 18 settembre 2016
XXV Domenica del Tempo ordinario

Am 8,4-7
1Tm 2,1-8
Lc 16,1-13
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QUANDO LA RICCHEZZA
DIVENTA IDOLATRIA
Il tema della ricchezza collega la prima lettura al testo evangelico. Corre, invece, in tutta autonomia la seconda lettura sulla modalità e ampiezza della preghiera di supplica e d'intercessione, diretta a Dio il quale vuole che tutti gli uomini siano salvi. Il profeta polemizza contro i ricchi del suo tempo i quali subiscono il riposo dei giorni prescritti e ne aspettano con ansia la fine per ritornare ai loro affari. Emerge, né è possibile diversamente a ragione dell'estrazione sociale del profeta, lo sdegno circa la frode e la ruberia sulla pelle dei poveri, essi stessi venduti come schiavi «per un paio di sandali». La contestualità storica è quella di una società segnata dal benessere e dal consumismo e incline alla corruzione e all'ingiustizia, del tutto ignara o indifferente al giudizio di Dio pure imminente.

La vicenda dell'amministratore astuto si colloca nella sezione III del vangelo di Luca. Gesù è sulla strada verso Gerusalemme. Dopo la lunga parabola del figliol prodigo, egli seguita ancora a istruire i discepoli proponendo (è un fatto di cronaca?) il caso di un uomo che ha lucrato ingiustamente sui beni che doveva amministrare. Il racconto si snoda nei vv. 1-8; i vv. 9-13 offrono l'interpretazione della parabola. Probabilmente si tratta di un fattore che amministra un latifondo in regime di mezzadria. Inevitabile la tentazione di avvantaggiarsene a danno del proprietario. Diremmo che è fisiologico e non solo in un contesto "agrario". Le cronache recenti spesso portano alla ribalta amministratori disonesti. Nel caso della parabola ci colpisce però l'astuzia dell'amministratore infedele. Di fronte al pericolo di essere obbligato a restituire il mal tolto, egli trova una via d'uscita nel farsi amici quanti sono debitori verso il suo padrone. La riduzione del debito, legittima perché comporta la rinuncia alla percentuale a lui dovuta, gli diventa garanzia per il futuro. E, a questo punto, più spiazzante ancora è la reazione del padrone che ne apprezza la furbizia.
Certamente è obbligatorio prestare attenzione ai versetti esplicativi della parabola. Prim'ancora di prenderli in esame, ci pare necessario mettere a tema la ricchezza. Nella tradizione d'Israele, la ricchezza si iscrive nella benevolenza di Dio, nel suo favore. E tuttavia possedere implica sempre un appropriarsi di qualcosa che per ciò stesso è sottratto ad altri. Oltre le dinamiche di fedeltà/infedeltà, cattiva/buona amministrazione, possedere è ipotecare un bene che dovrebbe essere "comune". C'è, ovviamente, una diversa responsabilità morale nell'uso come nel godimento delle ricchezze. L'insofferenza dei ricchi stigmatizzata da Amos, il gusto colpevole d'arricchirsi angariando i poveri, è assai più grave del fare la cresta a un patrimonio amministrato. Nel primo caso si irride alla legge di Dio, svuotando della sua valenza religiosa persino il riposo festivo. Ma, pur con tutte le distinzioni possibili, resta evidente che fare mio qualcosa sottraendolo alla fruizione dell'altro nega la signoria di Dio, dal quale solo promana ogni bene a tutti offerto come dono. Da qui l'esemplarità, già nell'AT (cf Gb 31,16-20; Tob 1,16-17), di compartire con gli altri quanto la gratuita benevolenza di Dio elargisce. Da qui la critica obbligata alla ricchezza nella fallace ed effimera sicurezza che essa sembra offrire (cf Lc 12,13-21).

I versetti 9-13 non incrinano il principio della iniquità originaria del possedere. La chiusa della pericope afferma infatti: «Non potete servire Dio e la ricchezza». "Ricchezza" nella traduzione vigente ha ceduto al greco mamòna, lungamente traslitterato con "mammona", termine, se aramaico, indicativo di un tesoro nascosto, ovvero di ciò che da sicurezza e stabilità. Tant'è che se ne coglie affinità semantica con la coppia 'mn, fiducia, affidamento, la stessa sulla quale è modulato il nostro "amen!". In Luca il termine è usato con valenza negativa, riferendosi alla ricchezza ingiusta (mamòna adikos) perché indebitamente accumulata, e perché divenuta idolatria del denaro. «I figli di questo mondo... verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» - si chiude così la sezione narrativa nella quale Gesù stesso pare prendere le parti dell' amministratore infedele. E prosegue: «Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché quando questa verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne». Ma conclude: «Nessuno può servire due padroni. [...] Non potete servire Dio e la ricchezza».
L'esortazione è volta a far comprendere quello che è un principio fondamentale: la ricchezza in tanto vale in quanto la si può utilizzare a vantaggio degli altri così acquisendo meriti in ordine al Regno. Fuori da questo input comunitario e comunionale essa è costitutivamente ingiusta e perciò va esclusa dall'esistenza cristiana che si gioca come reciproco servizio. Luca, non dimentichiamolo, fa dell'annuncio ai poveri il punto di partenza del ministero messianico. Della comunità delle origini dice: «Avevano ogni cosa in comune» (Lc 2,44). In ciò è fedele, assolutamente fedele alle parole di Gesù, il quale contrappone decisamente Dio e mammona, Dio e la personificazione idolatrica, demoniaca, del denaro. La sequela di lui importa un distacco radicale e impopolare dalla ricchezza. Eppure, da duemila anni, facciamo fatica ad ascoltarne e metterne in pratica la parola.


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