XXII Domenica del Tempo ordinario (C)

La Parola
Commento di Luigi Vari
Vita Pastorale (n. 7/2016)



ANNO C – 28 agosto 2016
XXII Domenica del Tempo ordinario

Sir 3,17-20.28-29
Eb 12,18-19.22-24a
Lc 14,1.7-14
(Visualizza i brani delle Letture)


LA VERA GRANDEZZA
SI RIVELA NELL'UMILTÀ

Il libro del Siracide riporta delle massime di vita, che per essere comprese hanno bisogno della mediazione della vita. Solo vivendo, è possibile percepire come mitezza e amore vadano insieme e associare la grandezza all'umiltà. Proprio su questa scelta di umiltà la pagina di Siracide insiste, sottolineando come essa sia rara e sia l'unica chiave per entrare nel progetto di Dio. L'umiltà opposta alla superbia è come la giustizia opposta all'empietà; la superbia, del resto, è nella letteratura biblica la radice del peccato dell'uomo. Il brano descrive infine il sapiente, che è tale perché capace di pensare e di ascoltare. Se il testo rimanda direttamente alla relazione con Dio, non si può eliminare quella con gli altri, poiché l'umiltà e la superbia non sono separabili secondo le relazioni che si vivono, se uno è umile e giusto lo è sempre, e viceversa.
Si dice ormai da più parti, ed è diventata una specie di refrain, che mancano le persone grandi, che gli adulti sono pochi; pochi quelli che sanno ascoltare e pensare, che cercano il disegno e non si accontentano di un tratto di matita. I grandi, quelli che possono aiutare a crescere, quelli che sanno restare fermi nelle difficoltà e pensare prima di agire, sono silenziosi e attenti, non impongono il loro modo di vedere, non fanno ombra al progetto che Dio ha per ognuno, ma cercano di capirlo e servirlo. I grandi sono gli umili, quelli che si lasciano guardare da Dio e gli permettono di agire nel mondo. l grandi sono quelli che sanno dire, anche di fronte a qualche umiliazione, questa è perfetta letizia.

La lettera agli Ebrei parla dell'esperienza di Dio e sottolinea la diversità dell'esperienza dell'Esodo, a cominciare da quella di Mosè, caratterizzata dalla grandezza e dal timore, con la consapevolezza che Dio è talmente altro dall'uomo, che vederlo equivale a morire perché si è proiettati in una dimensione completamente diversa. È l'esperienza di Dio che si fa in Gesù. Nell'esperienza di Dio che si fa in Gesù prevale la dimensione della festa, della comunione e della gioia, della pace; soprattutto vedere Dio in Gesù non produce l'effetto della lontananza quanto piuttosto provoca un cammino per somigliargli sempre di più. Non si tratta di opporre il Dio del Vecchio Testamento a quello del Nuovo, ma di comprendere quanto straordinario sia l'avvicinamento in Gesù di quel Dio che sembrava così lontano. Dio, che non si poteva guardare senza coprirsi il viso e non si poteva avvicinare senza togliersi i sandali, ci si avvicina e si fa guardare in Gesù. Spesso si ha paura della desacralizzazione, dell'eccessiva confidenza con Dio, si preferirebbe una maggiore cautela, se non che tutte le cautele sono state sospese da Gesù, che vuole proprio essere guardato, toccato, vuole trovare i nostri occhi per farci diventare sempre più perfetti, e vuole, incarnandosi, eliminare il pensiero che per essere vicino a Dio, bisogna morire nella propria umanità, disincarnarsi.

Le parole di Luca devono essere comprese proprio per la loro imprevedibilità, la frase cardine è: «Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato». Questa frase è esattamente l'opposto delle relazioni che ognuno di noi vive, del comandamento di emergere che è parte essenziale della nostra educazione. Qualunque cosa noi facciamo, la vogliamo fare bene e ognuno di noi ha stima di sé, e qualche volta ha anche la capacità di rendersi conto che in determinati casi alcuni hanno più meriti e viceversa. Il brano non vuole negare il principio che governa la crescita delle persone; infatti non chiede di considerarsi degni solo dell'ultimo posto, ma di mettersi là con la fiducia che il padrone di casa decida lui quale sia il posto più adatto. Essere fuori posto è la vera umiliazione della vita, la tristezza che si genera in chi non è al posto suo, è quella I:umiliazione che ognuno deve temere. È il padrone di casa che decide il posto da occupare, verso di lui l'invitato nutre un sentimento di fiducia e non dubita che lo metterà al posto giusto. Qualunque posto il padrone decide, lo comunica all'invitato, si avvicina a lui, lo onora chiamandolo a occupare il posto deciso per lui.

Un posto, conferma la seconda parte del brano che è sempre più alto di quello che uno meriterebbe, perché è un posto suggerito dall'amicizia: «Amico, vieni più avanti». Si dice, infatti, che quando sarà l'invitato a dover invitare, lo faccia solo come chi, avendo sperimentato quanto onore riesce a dare l'amore, decide di lasciarsi guidare dallo stesso criterio. Il criterio dell'amore non risponde alla logica del ritorno: chi ama, ama e basta; non si lascia condizionare da ragionamenti economici, da considerazioni dettate dall'efficientismo e nemmeno da considerazioni estetiche. Si intravvede in questo banchetto, la Chiesa, che ha come unico titolo di appartenenza, l'essere stati amati e come unica regola di relazione quella dell'amore e del dono.
Uscire fuori da questa verità, per considerazioni che nella società degli uomini sono normali, è rifiutare la sapienza di Dio a unico vantaggio di quella degli uomini, è scegliere la strada dell'autosufficienza, del management, e quando questo accade, quando qualcuno si dimentica che è nella Chiesa a motivo di un dono ed è chiamato a trovare un posto a tutti per lo stesso motivo, allora... chi si esalta sarà umiliato.

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