XXI Domenica del Tempo ordinario (C)

La Parola
Commento di Luigi Vari
Vita Pastorale (n. 7/2016)



ANNO C – 21 agosto 2016
XXI Domenica del Tempo ordinario

Is 66,15b-21
Eb 12,5-7.11-13
Lc 13,22-30
(Visualizza i brani delle Letture)


GESÙ, L'UNICO
DEL QUALE FIDARSI

La prima lettura dal profeta Isaia contiene un elenco di nomi di località, che danno l'impressione di essere molto lontane. Prima ancora dell'elenco delle nazioni lontane si parla di ogni persona di ogni lingua. Dio stabilisce dei missionari che hanno come compito di raggiungere ogni angolo della terra per annunciare la sua gloria. Un brano che si costruisce sul tema dell'universalità della salvezza, vista nei suoi effetti, principalmente quello per cui gli idolatri non faranno più la loro offerta agli idoli, ma, purificati della loro idolatria, la faranno al tempio del Signore. Il mondo di Isaia è sorprendentemente ampio, è un mondo di cui ogni persona fa parte, diversificato per la presenza di tante culture, di tanti popoli e ognuno con una sua divinità. Per quanto grande il mondo di Isaia lo è molto meno del nostro, che non è più solo quello dell'atlante, ma è aumentato, anche per la potenzialità della rete, in maniera inarrestabile e ogni sua regione è abitata. La grandezza non fa rinchiudere Isaia nel suo piccolo mondo, ma gli fa immaginare un grande movimento missionario per dire a ognuno la gloria di Dio; così è per noi: non possiamo ritenere impermeabili a Dio i mondi che si moltiplicano intorno a noi, ma piuttosto sentirci impegnati a seminare ogni angolo della gloria di Dio, della sua presenza e provvidenza.

La lettera agli Ebrei presenta una pagina di pedagogia non difficile da comprendere. Infatti con molto buon senso racconta la paternità di Dio analogicamente a quella umana, come un esercizio di amore che prevede la correzione, che è una faccia dell'amore, perché manifesta cura, attenzione e desiderio di bene per la persona amata. Le prove della vita dei cristiani ai quali l'autore della lettera si rivolge non devono essere considerate segno della dimenticanza di Dio, quanto piuttosto segno del suo amore per loro. La lettera suggerisce anche un principio di discernimento, quello della pace; se cioè una prova viene da Dio, lo si può misurare da un cuore che diventa più pacifico e più giusto.
L'amarezza non è un sentimento previsto nella relazione con Dio, perché tutto quello che viene da lui, viene dall'amore e viene per far crescere e non per stroncare. La correzione non è da immaginare come qualche disgrazia che colpisce il credente, ma come il prezzo della fedeltà alla Parola, proprio quando questa fedeltà è costosa, nel momento della prova, bisogna ricordare che Dio è un Padre che parla per il bene del figlio; se si accoglie questo e si accetta la prova che deriva dalla fedeltà, il segno che si è fatta la scelta giusta è un cuore sempre più libero, capace di rispettare l'altro, un porto sicuro per chi a quel cuore si rivolge. Un cuore amareggiato è la cosa più brutta che un cristiano può mostrare.

La domanda del vangelo di Luca è sulla salvezza, posta in termini molto generali. È una questione teologica. Gesù non si mette a rispondere da teologo, ma risponde con l'immagine della porta stretta difficile da attraversare. Inoltre quella porta oltre che essere stretta è vigilata da un padrone deciso a non riaprirla quando sarà chiusa. L'immagine di chi entra richiama all'impegno per entrare, per capire chi sono quelli che entrano, il testo suggerisce un criterio negativo, cioè non entrano gli operatori di ingiustizia. Entrano i giusti, quelli che la Bibbia conosce come capaci di affidarsi a Dio, più simili a un albero che a paglia dispersa dal vento. L'indicazione di un solo criterio rende inutili tutti gli altri ai quali si può pensare, inutile ogni appartenenza, ogni condizione spiritualmente privilegiata, ogni funzione, ecc. L'immagine dominante è quella del padrone, che è Gesù stesso, che sulla soglia della porta, indifferente agli argomenti che chi vuole entrare porta, considera solo se alla soglia della sua porta ci sia un giusto.
Come già considerato, queste pagine di Luca non hanno niente di pacificante, creano nel lettore un disagio, che resta tale solo se si pensa di aver a che fare con regole incomprensibili o difficili da interpretare. Il disagio diminuisce e diventa consolazione se si pensa che l'unica condizione per entrare nella porta custodita da Gesù, è quella di aver fiducia in lui. Incuriosisce la protesta di chi, non potendo entrare, argomenta che il diritto a farlo nasce dall'aver ascoltato le parole del Vangelo e dall'aver partecipato a banchetti, cioè di aver avuto una certa familiarità con il maestro, un argomento che si scontra con la risposta di Gesù che continua a ribadire che non sa di dove sono. Significa che l'unico spazio vero che produce la salvezza, l'ingresso nel Regno, oppure per essere più chiari, la vita, è la comunione con Gesù. La contiguità non è comunione, essere spettatori del Vangelo senza nemmeno sforzarsi di viverlo, non è sufficiente. Il rischio della confusione fra vicinanza, familiarità e comunione è un rischio reale, che corrono tutti. La confusione quando la porta si chiude, quando si fa notte, cioè nei momenti difficili della vita, si manifesta in tutta la sua drammaticità, perché in quei momenti l'unica domanda che Gesù fa è se ci si fidi di lui, e non basta ricordargli che più o meno sappiamo quello che ha detto e che lui non è proprio uno sconosciuto per noi, serve poter rispondere che sì, di lui ci si fida e raccontare la fiducia. Questo non solo alla fine della vita come il linguaggio apocalittico del brano, spinge a fare, ma sempre.

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