XVIII Domenica del Tempo ordinario (C)

La Parola
Commento di Luigi Vari
Vita Pastorale (n. 6/2016)



ANNO C – 31 luglio 2016
XVIII Domenica del Tempo ordinario

Qo 1,2;2,21-23
Col 3,1-5.9-11
Lc 12,13-21
(Visualizza i brani delle Letture)


LA VITA NON CONSISTE
NELL'AVERE MOLTI BENI

Oggi, il libro del Qoèlet ha l'effetto di un pugno nello stomaco; per quanto si voglia addolcire, contestualizzare o altro, le parole: «Vanità delle vanità, tutto è vanità», non possono non mettere in difficoltà chi le ascolta. In più nel testo che si legge nella liturgia odierna sono messi nell'elenco delle vanità, la scienza e la fatica. Se si potesse leggere il testo in ebraico le parole tradotte con vanità delle vanità, sono onomatopeiche e danno l'effetto sonoro di una valanga di pietre che cade. La lettura attenta del libro permette al lettore di comprendere che esso non è il monumento a un cupo pessimismo, ma una considerazione sulla consistenza della vita quando essa è senza riferimenti, quando è autoreferenziale, quando basta a sé stessa. Senza riferimenti a Dio, è questa la sentenza del saggio, niente ha consistenza.
Queste parole del Qoèlet urtano la nostra sensibilità, sembrano in contrasto con l'idea dell'uomo protagonista del creato, ma è esperienza comune che senza riferimenti certi tutte le costruzioni dell'uomo, somigliano a una torre di babele, che cede. Nell'emergenza ambientale, morale, politica, finanziaria e umanitaria, l'unica cosa che sembra funzionare è la capacità di farsi del male. È esperienza comune che togliere Dio dal panorama non produce che frane più o meno rumorose, che hanno il suono di quelle parole che abbiamo ascoltato: vanità delle vanità.

Il riferimento al Qoèlet fa desiderare l'esistenza di un punto fermo, desiderio descritto da Paolo nella lettera ai Colossesi, in questo brano in cui rappresenta l'uomo non come uno che si gira intorno contemplando l'opera delle sue mani, ma come uno che orienta lo sguardo a Cristo seduto alla destra di Dio. Suggerisce che lo statuto del risorto sta proprio nel non considerare assoluta l'esperienza della propria esistenza, ma di pensare che essa ha prospettive inedite da scoprire. Introduce l'immagine della vita come un cammino in cui progressivamente ci si sveste dell'uomo vecchio e si riveste quello nuovo, per cui tutto quello che sembra impossibile da cambiare, cambia. La vita come cammino per raggiungere sempre nuovi traguardi, fino a raggiungere Cristo, non può essere più definita una vanità.
Non il rumore di una frana che cade, ma il rumore discreto di una casa che si costruisce. Perché non ci sia rumore di frana, è necessario che tutto quello che lo produce sia rimosso, e Paolo fa un elenco molto puntuale delle cose che fanno rumore e riempiono cuore e orecchie, le chiama le cose che appartengono alla terra. Fra queste, l'ultima, la sviluppa con più attenzione ed è quella più rumorosa di tutte: la divisione fra persone per le loro appartenenze etniche, culturali, religiose, sociali. Mentre denuncia questi rumori, suggerisce pure che solo guardando a Cristo, possono essere messi a tacere.

Sono proprio una delle maggiori realizzazioni della sapienza umana, le leggi, a essere messe in scena dalla pagina di Luca, che racconta di uno che gli sottopone un caso di eredità. La risposta di Gesù dice, brevemente, che le leggi non sostituiscono l'uomo e che se possono garantirgli i propri possedimenti e i propri diritti, non possono garantire la vita. La vita, si deduce dalla parabola dell'uomo che si mette a riposo immaginando di godersi in pace i suoi beni, non è nella disponibilità di nessuno; non si mette in banca. La vita, se si confonde con una delle cose che si possiedono, rappresenta una grande delusione; non lo è se si ricorda che essa è più delle cose. Come tutte le parabole anche questa non ha bisogno di molte spiegazione, perché parte dall'esperienza comune; vite intere spese ad accumulare cose, a costruire case, a rendere solido il patrimonio, che crollano rovinosamente quando ci si avvede che i conti non tornano. Il figlio, per cui avevi costruito la casa, va a vivere altrove; le cose che avevano assorbito tutto il tuo impegno e per le quali avevi sacrificato le relazioni con gli altri e quella con Dio, per non parlare quella con te stesso, scolorano perché invecchi, perché non puoi più seguire tutto, perché le cose cambiano.
Questa è la vita che in tanti raccontano, il motivo di tante tristezze; è così non perché sia sbagliato darsi da fare, curare i propri interessi, cercare di garantire un futuro ai figli; ma è sbagliato se, per farlo, si smette di avere un cuore, di vivere. La vita che l'uomo ricco sogna, chiusa in un castello dove ogni angolo è un forziere, ogni costruzione, un granaio, trasuda la tristezza della solitudine. Nel momento stesso in cui si sogna una vita così solitaria, senza che in quella casa ci sia posto per nessun altro, senza che nel proprio cuore ci sia posto per qualche pensiero di compassione e di solidarietà, allora già si muore. Dio che dice a quell'uomo che la notte stessa morirà, non gli sta facendo un dispetto, quasi che fosse geloso dei risultati di quell'uomo, ma gli ricorda solo che quella vita che sta sognando è già morta. Dio ricorda a quell'uomo che se si mette a cercare in tutti i forzieri e ad aprire tutte le stanze, si renderà conto che fra tutto quello che ha accumulato, manca proprio la vita. La vita è una cosa diversa, per vivere a volte bisogna perdere qualcosa, condividere, donare, aiutare; soprattutto, per vivere, è necessario che la casa del proprio cuore somigli a tutto meno che a una cassaforte inespugnabile.

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