La Parola Il comportamento di Davide verso Uria è una delle pagine più violente della Bibbia perché in un colpo solo tutti i fondamenti della relazione sono sconvolti: non conta la lealtà di Uria, non conta l'amicizia, nemmeno sono messi in conto altri valori, ad esempio quello della famiglia. Davide, accecato dalla passione per la moglie di Uria, non esita a far uccidere il suo rivale. La reazione del profeta Natan è furibonda: il peccato di Davide assume proporzioni epiche, facendo quell'ingiustizia ha messo in discussione Dio stesso che, deluso dalla mancanza di giustizia di Davide, lo abbandona alla legge della violenza: la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, profetizza Natan. Davide prende coscienza dell'enormità del suo gesto e riconosce il suo peccato. Il riconoscere la colpa apre uno spiraglio a Dio, che ferma la sua mano, lo lascia vivere: Dio non vuole la morte del peccatore.
Commento di Luigi Vari
Vita Pastorale (n. 5/2016)
XI Domenica del Tempo ordinario
2Sam 12,7-10.13
Gal 2,16.19-21
Lc 7,36-8,3
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RITORNA A VIVERE
C'è in questa storia un modo particolare di descrivere la violenza: essa è descritta come una forza che distrugge tutte le relazioni, è il comportamento contrario a quello che sarebbe giusto avere; all'amore di Dio corrisponde la ribellione; alla fedeltà di Uria corrisponde il tradimento del re e amico Davide, niente funziona come dovrebbe. È un fiume che travolge tutto e si alimenta da sé: non c'è scampo se non quello della misericordia che è una risposta alla consapevolezza del male. Ma la via di uscita delle misericordie non è definibile come un oblio di Dio; ma piuttosto come Dio che aiuta il peccatore a vivere e a ritrovarsi, Davide dovrà fare i conti fino all'ultimo giorno con i tradimenti, con altre violenze e delusioni. La sua forza sarà quella di ricordarsi e di pentirsi per essere stato lui a gettare quel seme.
Paolo nel brano odierno della lettera ai Galati continua a riflettere sulla relazione tra fede e legge: Questo è un brano non di facile lettura: non dovrebbe essere letto come semplice contrapposizione tra fede e legge, ma piuttosto come spiegazione che con il battesimo il cristiano diventa una nuova creazione, una creatura nuova che, per entrare in relazione con Dio, per essere cioè giusto, non ha bisogno più di rispettare le regole della Legge. La fede in Cristo e la comunione con lui bastano; la vita nuova ha bisogno solo di comunione. Vivere da vivi, oppure da morti. Paolo suggerisce che per vivere da vivi c'è bisogno solo di fiducia in Cristo, di sentirsi partecipi della sua vita, credere che la nostra vita di battezzati è un dono del suo amore. Vivere da morti significa non dare nessuna importanza all'amore di Dio nella nostra vita, rendere inutile il suo amore. Vivere da vivi non è vivere senza regole, ma vivere pensando che ogni gesto e parola sono risposta all'amore di Dio. Questa è la consapevolezza che dobbiamo cercare e trasmettere.
Il brano di Luca si lega bene a quello di Paolo perché è racconto di quanto, nelle parole di Paolo, poteva sembrare solo teoria; si scontrano il mondo triste e scolorito di Simone il fariseo e dei suoi ospiti con quello straordinariamente luminoso e pieno di speranza di Gesù e della donna peccatrice. Le perplessità di Simone sull'identità di Gesù che si lascia toccare dalla donna, non sono espresse, e proprio per questo manifestano una condanna senza appello per il maestro. Per Simone, Gesù è solo un ribelle e un ciarlatano, certo non è un profeta e dunque non ha niente a che fare con Dio. La parabola di Gesù, con la successiva contrapposizione fra i gesti della donna e quelli di Simone, aiuta il lettore a comprendere il punto. La donna, infatti, con i suoi gesti anche esagerati scopre quello che Simone non riesce a scoprire con tutta la sua conoscenza della Legge, cioè che Gesù è il Signore e che l'unica relazione possibile è quella dell'amore che gli consente di guarire e perdonare. Gesù ha a che fare con Dio perché è capace di avere misericordia, che per i farisei è un problema, mentre per la donna è la spinta per ritrovare la pace.
Chi è il profeta? La risposta la conosciamo tutti. Il profeta è chi parla a nome di Dio, o meglio, chi parla con la lingua di Dio. Forse non tutti riflettiamo su che cosa dica quella lingua, qual è la parola che sicuramente la caratterizza come linguaggio di Dio. Luca suggerisce che la parola tipica di Dio è misericordia. Si può misurare la nostra capacità di profezia non solo dal nostro coraggio di denunciare e di affrontare le situazioni difficili che molte persone vivono, ma anche dalla possibilità che sia riconoscibile fra le parole, quella di Dio che fa commentare: parla perché ama. Nel brano di oggi la donna, che è peccatrice, trova una speranza nell'amore di Cristo. Anche Cristo affronta il fariseo per amore della donna e anche del fariseo stesso, perché quello non lo degna delle parole, mentre Gesù parla a lungo con lui perché comprenda. Ce ne sono tanti di profeti oggi, che hanno parlato e parlano in modo che si capisce come sia l'amore a spingere le loro parole, si capisce che parlano la lingua di Dio. Bisogna, però, pensare che questa lingua la può parlare ogni battezzato e che quando vediamo che qualcuno la parla bene, la reazione non è quella di essere ammirati, ma quella d'imparare come si parla quella lingua. Speriamo di non essere fra i commensali di Simone che mormorano e si chiedono: «Ma chi si crede di essere!».
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XI Domenica del Tempo ordinario (C)
ANNO C – 12 giugno 2016
LA PECCATRICE