«Quello che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l'avete fatto a me»



Il diaconato in Italia n° 196
(gennaio/febbraio 2016)

CONTRIBUTO


«Quello che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l'avete fatto a me»
di Calogero Cerami

L'aspetto patristico del discorso teologico della carità
«Nel 1994, durante il Sinodo, in una riunione dei gruppi, dissi che si doveva instaurare la rivoluzione della tenerezza [...] Se un imprenditore assume un impiegato da settembre a luglio non fa la cosa giusta, perché lo congeda per le vacanze a luglio per poi riprenderlo con un nuovo contratto in settembre, e in questo modo il lavoratore non ha diritto all'indennità, né alla pensione, né alla previdenza sociale. Non ha diritto a niente. L'imprenditore non mostra tenerezza, ma tratta l'impiegato come un oggetto. Se ci si mette nei panni di quella persona, invece di pensare alle proprie tasche per qualche soldo in più, allora le cose cambiano. La rivoluzione della tenerezza è ciò che oggi dobbiamo coltivare come frutto di questo anno della misericordia: la tenerezza di Dio verso ciascuno di noi» [1].
Papa Francesco in un'intervista rilasciata al periodico "Credere" e pubblicata su "L'Osservatore Romano" parla di un imprenditore e di un impiegato lasciando intendere chiaramente cosa significhi l'esercizio della carità nei confronti dei piccoli. L'imprenditore di cui parla il Papa non mostra tenerezza perché tratta l'impiegato come un oggetto e non come una persona. Non si può vivere il cristianesimo in maniera ideale o astratta, perché Dio ha scelto di abitare tra gli uomini e di sanare le ferite dell'umanità. Il discepolo è chiamato a seguire il maestro imitandolo nei gesti di misericordia, nelle opere da lui compiute per la felicità di ogni uomo e donna. Il problema del precariato, della disoccupazione, dell'emigrazione di tanti giovani dalla nostra terra, l'accoglienza degli immigrati non sono problemi che riguardano solo la sfera sociale, ma anche quella ecclesiale, chiamata a vivere il mistero dell'incarnazione, facendosi prossima ai piccoli del nostro tempo.
Il giubileo della misericordia deve pertanto interrogarci sul nostro umanesimo concreto, così come è stato felicemente ricordato nella relazione del prof. Mauro Magatti al Convegno Ecclesiale di Firenze, citando Romano Guardini. Il discorso escatologico matteano (cf. Mt 25,31-46) in cui Gesù annuncia il giudizio finale sintetizza la singolarità cristiana, ponendo con chiarezza ogni discepolo di Cristo di fronte alla propria concreta responsabilità verso i fratelli, in particolare verso i piccoli. Gesù parla di sé alla terza persona quale Figlio dell'uomo (cf. Dn 7,13) che verrà alla fine dei tempi per separare le pecore dai capri, e porre le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra (cf. Ez 34,17). Ai primi, definiti «benedetti del Padre», il Re dona in eredità il Regno con questa motivazione: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in carcere e siete venuti a trovarmi». Agli altri è riservata la sorte opposta. Queste opere compiute nei confronti dei fratelli più piccoli permettono ai primi di ottenere la beatitudine e agli altri invece il fuoco eterno. Tenterò lasciandomi aiutare da due autori dell'antichità cristiana di comprendere chi sono questi piccoli di cui parla il vangelo, perché anche oggi in loro si possa scorgere il volto misericordioso del Padre.

I piccoli per l'alessandrino Origene
Origene nasce ad Alessandria fra il183 il187 da una famiglia cristiana, e perde il padre Leonida durante la persecuzione di Settimio Severo. L'amministrazione imperiale gli confisca il suo patrimonio, e quindi deve dedicarsi all'insegnamento per sopravvivere e sostenere la famiglia. Gli viene affidata la scuola dei catecumeni in Alessandria, che dirige conducendo una vita esemplare. È uno dei più grandi esegeti dell'antichità e uno dei più grandi mistici che ha descritto le vie dell'ascensione dell'anima verso Dio [2].
Il procedimento ermeneutico utilizzato da Origene è quello della quaestio, che serve ad approfondire un passo biblico: la Scrittura, incarnazione del Logos, infatti, presenta al di là del senso letterale, un senso spirituale più profondo, che sfugge ai più, ma che è possibile scorgere tramite lo Spirito di Cristo, che ha ispirato gli agiografi e ispira anche gli interpreti (De Princ. 4,2,7; 2,7,2) [3]. Nel Commentario a Matteo Origene spiega che i piccoli [4] sono coloro che non vengono stimati dal mondo o coloro che desiderano diventare grandi presso Dio [5].
«Quel che facciamo per i santi, ricchi di meriti ma poveri di cose, o per tutti quelli poveri di meriti anche se ricchi di cose, o per qualunque motivo si sia compiuto il precetto di Cristo, è al Cristo che si dà da mangiare e bere, lui che si nutre e si abbevera della giustizia e della verità dei fedeli. Così abbiamo tessuto una veste per Cristo che ha freddo, prendendo da Dio una tessitura di sapienza, in modo da insegnare ad alcuni la dottrina, facendoli rivestire di "viscere di misericordia, castità, mansuetudine, umiltà" (Col 3,12) e delle altre virtù; e tutte queste virtù sono indumenti spirituali per quelli che ascoltano l'insegnamento di coloro che li ammaestrano in essa, seguendo colui che dice: "Rivestitevi di viscere di misericordia, di benignità, umiltà, mansuetudine", ecc., ma maggiormente lo stesso Cristo che è tutto ciò per i fedeli, stando a colui che ha detto: Rivestitevi di Gesù Cristo (Rm 13,14). Quando dunque avremo ricoperto di tali vesti "uno solo di questi più piccoli" (Mt 25,40) che credono in Cristo, è chiaro che abbiamo vestito lo stesso Signore, affinché (nella misura in cui ciò dipende da noi) il Verbo di Dio non sia nudo nel mondo. Ma dobbiamo accogliere sia il Figlio di Dio, venuto come forestiero, sia quelli congiunti col suo corpo, viventi nel mondo come estranei da tutte le azioni materiali, come egli dice di se stesso e dei suoi discepoli: "E questi non sono di questo mondo, come io non sono di questo mondo" (Gv 17,14)» [6]. Origene intende i piccoli non solo in riferimento alla povertà materiale, ma anche a quella spirituale. Cristo ha assunto la carne per rivestire l'uomo di immortalità. A sua volta il discepolo è chiamato a rivestire i piccoli, membra del corpo di Cristo che venne tra i suoi e non l'accolsero. Chi assume le virtù spirituali, assume Cristo, si veste di Cristo e dilata il cenacolo del cuore allo spazio ecclesiale dell'intero Corpo: «Se dunque disponiamo il nostro cuore per mezzo di varie virtù all'accoglienza di lui e di quelli che sono suoi, è lui stesso che accogliamo nella dimora del nostro petto, facendone un cenacolo grande, pulito, ornato per l'accoglienza di Cristo forestiero nel mondo e di tutti gli altri suoi propri discepoli. Infatti sembra che accogliamo in noi coloro di cui accogliamo la parola, e attraverso loro accogliamo il Cristo della cui parola essi portano il carico».
L'accoglienza dell'altro e nell'altro l'accoglienza del Verbo porta alla conoscenza. Origene, commentando la pericope della trasfigurazione, afferma due conoscenze di Gesù: una secondo la carne, l'altra attraverso le parole dei Vangeli. Le vesti di Gesù che sono candide come la luce, sono, infatti, le parole dei Vangeli e le rivelazioni degli Apostoli. Chi viene condotto sull'alto monte, dunque, conosce Gesù, spiega ogni testo della Scrittura e dell'AT e del NT e vede altresì Mosè [7] ed Elia nella gloria [8].
Anche l'infermità è interpretata sia in senso fisico che spirituale e ha sempre un riferimento cristologico, perché negli infermi si può intravedere Cristo stesso che soffre. Chi visita gli infermi, continua Origene, visita e conforta Cristo. Nell'ammalato e nel carcerato si incontra Cristo (cf. Cm Mt 72, p. 439). Queste opere di carità non possono costituire una semplice filantropia, perché chi osserva i comandamenti si trova sempre più vicino al Verbo, chi non li mette in pratica, se ne allontana e pregusta il fuoco eterno (cf. Cm Mt 72, p. 441).
L'infermità da Origene è intesa anche in riferimento a coloro che soffrono per uno scandalo e a tal proposito cita il passo matteano (Mt 16, 23) nel quale Gesù rivolto a Pietro gli dice di essere motivo di scandalo, ossia motivo di debolezza. Tutti coloro che non pensano secondo Dio, ma secondo gli uomini, pur dichiarandosi discepoli di Cristo, non guardano all'invisibile e all'eterno e pensano alle cose visibili e transitorie, sono motivo di scandalo (cf. Cm Mt XII, 23). Tra coloro che perdono l'orientamento verso Cristo ci sono anche coloro che sono stati chiamati a guidare la comunità cristiana, ossia vescovi, presbiteri e diaconi che hanno una grave responsabilità nei confronti del popolo santo di Dio. Ci sono alcuni, afferma Origene, che «amano avere i primi posti e si danno molto da fare anzitutto per essere fatti diaconi [...] E coloro che vogliono essere diaconi in questo modo, di conseguenza ambiscono appropriarsi i primi seggi visibili di coloro che sono chiamati presbiteri. Alcuni poi, non contenti di ciò, smuovono mari e monti per farsi chiamare vescovi - cioè rabbi - dalla gente, mentre dovrebbero capire che il vescovo deve essere irreprensibile» [9] Il carrierismo, più volte stigmatizzato da Papa Francesco, in questo modo viene presentato da Origene come uno dei peccati più gravi soprattutto per coloro che sono chiamati nella Chiesa ad essere pastori e non mercenari, a servire e non ad essere serviti.
A partire dalla metafora paolina del corpo (cf. 1Cor 12,27), Origene istituisce un paragone tra Cristo e la Chiesa per affermare che Cristo soffre nelle membra della Chiesa come l'anima nel corpo: «Come quindi l'anima che dimora nel corpo, benché non abbia fame secondo la sua sostanza spirituale, tuttavia ha fame di ciascun cibo corporale, in quanto è congiunta al suo corpo, così il Salvatore soffre quello che soffre la Chiesa, suo corpo, pur essendo egli impassibile quanto alla sua divinità. Infatti se i santi hanno bisogno di cibo, è lui che ha fame e se altre sue membra hanno necessità di medicina, è lui stesso che come infermo ne ha bisogno; così pure, se altri abbisognano di accoglienza, è lui che in loro come pellegrino cerca dove poggiare il capo» [10].
In questo modo la teologia della Scrittura e la teologia della Chiesa si ricongiungono nella teologia del Logos. Secondo la teoria della communicatio idiomatum, così come la intende Origene, al Capo si può applicare ciò che è detto delle membra e così viceversa alle membra si può applicare ciò che è detto del Capo.

I piccoli per l'antiocheno Crisostomo
Giovanni Crisostomo, nato intorno al 349 ad Antiochia di Siria, svolse il ministero di presbitero per circa undici anni, fino al 397, quando fu nominato vescovo di Costantinopoli, predicando la parola. Ebbe come maestro Libanio, il più celebre retore del tempo. Alla sua scuola divenne il più grande oratore della tarda antichità greca. Fu formato alla vita ecclesiastica dal vescovo Melezio che lo istituì lettore nel 371. La predicazione del Crisostomo si svolgeva abitualmente nel corso della liturgia, nella quale l'assemblea riunita esprimeva l'unica Chiesa e l'eucaristia era il segno efficace di unità. Morì in esilio nel 407. Le Omelie sul vangelo di Matteo costituiscono il più antico commento completo al primo vangelo, predicate tra il 386 e il 397.
Commentando il discorso escatologico di Matteo nell'omelia 79 si chiede chi siano i piccoli a cui fa riferimento la pagina evangelica: «Sono tuoi fratelli; perché li chiami i più piccoli? Per questo sono fratelli, perché sono umili, perché sono poveri, perché sono disprezzati. Chiama alla sua fratellanza soprattutto persone di questo genere, gli sconosciuti, quelli che non sono tenuti in nessuna considerazione; non si riferisce solo ai monaci e a coloro che hanno raggiunto le montagne, ma a ciascun credente: anche se vive nel mondo ed è consunto dalla fame, è nudo e forestiero, vuole che sia oggetto di tutta questa sollecitudine» [11]. Il povero che manca del necessario per vivere con dignità è «sacramento» di Gesù Cristo, perché con lui Cristo stesso ha voluto identificarsi (cf. 2Cor 8,9) [12].
In maniera provocatoria Crisostomo deplora il comportamento dei vescovi e dei sacerdoti intenti ad accaparrare beni materiali e ad amministrarli, dimenticando il vero tesoro della Chiesa: «I sacerdoti di Dio non si occupano di ciò che è loro conveniente. Forse che al tempo degli apostoli, non sarebbe stato possibile che le case e i campi rimanessero in loro possesso? Perché dunque li vendevano e ne distribuivano il ricavato? Perché era meglio così [...] Ma ora, nella preoccupazione per questi affari, i nostri vescovi hanno superato gli amministratori, gli economi e i mercanti; mentre dovrebbero preoccuparsi e darsi pensiero delle vostre anime, essi invece ogni giorno si logorano per gli stessi affari per cui si affannano i collettori di imposte, gli esattori, i revisori di conti, i tesorieri. Non lo dico semplicemente per deplorarlo, ma perché si verifichino un miglioramento e un cambiamento della situazione, perché si abbia pietà della dura schiavitù in cui ci troviamo, perché voi siate la rendita e il tesoro della Chiesa. Se non volete, ecco i poveri davanti ai vostri occhi; quanti potremo soccorrere non tralasceremo di nutrirli, mentre quelli che non potremo nutrire, li affideremo a voi perché non ascoltiate, in quel giorno terribile, le parole che saranno pronunciate contro coloro che sono senza misericordia e crudeli: "Mi avete visto affamato e non m i avete nutrito"» [13].
Dall'accumulo della ricchezza di ogni sorta «nascono contese, conflitti, oltraggi quotidiani, ignominie, derisioni e a ciascun sacerdote vengono dati nomi che si addicono maggiormente alle cose terrene, mentre dovrebbero essere scambiati questi titoli con altri ed essi dovrebbero essere chiamati in base a quelle funzioni stabilite dagli apostoli, vale a dire il sostentamento dei poveri, la difesa dei poveri, la difesa degli oppressi, la sollecitudine per i forestieri, l'aiuto per coloro che sono vessati, la cura degli orfani, l'assistenza alle vedove, la protezione delle vergini; dovrebbero dividersi questi servizi invece di preoccuparsi dei terreni e delle case. Questi sono cimeli della Chiesa, questi i tesori che le si addicono e che procurano a noi grande soddisfazione e a voi utilità, anzi anche a voi soddisfazione insieme all'utilità» [14].
Crisostomo con queste parole assimila Cristo al povero, chiedendo ai ministri di rivestirlo nel povero: «Non pensi che sia un grande onore tenere il calice da cui Cristo berrà e che porterà alla bocca? Non vedi che solo al sacerdote è lecito presentare il calice del sangue? Io, dice, non sto a sottilizzare su questo, ma anche se lo presenti tu, lo accetto; anche se sei laico, non rifiuto. Non chiedo ciò che ho dato, perché non cerco sangue, ma dell'acqua fresca. Pensa chi disseti e rabbrividisci. Pensa che diventi sacerdote di Cristo, dando con la tua propria mano non carne ma pane, non sangue ma un bicchiere di acqua fresca. Ti ha rivestito della veste di salvezza e ti ha rivestito personalmente; tu rivestilo almeno per mezzo del tuo servo. Ti ha reso glorioso nei cieli; tu liberalo dal freddo, dalla nudità, dalla vergogna. Ti ha fatto concittadino degli angeli; tu condividi con lui almeno il tetto, dandogli una casa anche soltanto come se fosse il tuo servitore: non rifuggo da questo alloggio, sebbene ti abbia aperto tutto il cielo. Ti ho liberato da un carcere durissimo; non ti chiedo questo, né ti dico: Liberami, ma è sufficiente a confortarmi se solo mi vieni a vedere mentre sono in catene. Ti ho resuscitato mentre eri morto; io non ti chiedo questo, ma ti dico: Fammi solamente una visita quando sono malato» [15].
In questo modo stabilisce una connessione tra il calice eucaristico e il bicchiere d'acqua offerto all'assetato. Può diventare sacerdote di Cristo chi soccorre il povero. Crisostomo si scagliava continuamente contro un sistema imperiale che non salvaguardava la dignità della persona umana e perpetuava le ingiustizie sociali a Costantinopoli. Non aveva timore di paragonare l'imperatrice Eudossia ad Erodiade, scagliandosi apertamente contro coloro che opprimevano i poveri [16].
Papa Francesco al Convegno Ecclesiale di Firenze (10 novembre 2015) ha parlato di due possibili tentazioni: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Quest'ultimo spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata, perché porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette. La norma, infatti, dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. Lo gnosticismo porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell'immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii Gaudium, 94).
Il Papa ha richiamato la Chiesa italiana alla prossimità alla carne del fratello per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso e lieto. È necessario ripartire da Cristo che ancora una volta fissa il suo sguardo (cf. Mc 10,21) su questa umanità e se ne innamora, perché ne desidera la salvezza. Solo chi si fida di questo sguardo e chi confida in Lui potrà incontrarlo nel più piccolo e riconoscerlo nell'affamato, nell'assetato, nel carcerato, nel mendicante. Giovanni Crisostomo, in modo mirabile, stabilisce un confronto tra il corpo eucaristico e il povero e chiede di non accostarsi alla mensa eucaristica se si è pieni di desideri perversi, come la brama di ricchezza, il rancore o l'ira. Esorta, in modo particolare i diaconi [17] che distribuivano l'Eucaristia a vigilare perché agli indegni, noti per aver commesso colpe gravi, non venisse consentito di accostarsi alla mensa eucaristica: «Dico questo a voi che prendete parte ai misteri e a voi che ne siete ministri. È necessario parlare anche a voi, in modo che distribuiate questi doni con grande cura. Non piccolo è il castigo a voi riservato se permettete di partecipare a questa mensa a qualcuno di cui conoscete qualche iniquità. Del sangue di lui sarà chiesto conto alle vostre mani. [...] Perciò Dio vi ha elargito questo onore, perché esercitiate un tale discernimento. Questa è la vostra dignità, questa la vostra sicurezza, questa tutta la vostra corona, non perché ve ne andiate in giro rivestiti di una tunichetta bianca e rilucente. [...] Temi Dio, non l'uomo» [18].
Il ministero diaconale è legato dunque alla vigilanza e al discernimento, in modo che anche chi si è reso indegno con il peccato, possa essere reinserito nel corpo di Cristo attraverso la penitenza. Onorare il corpo di Cristo, infatti, non è mero atto liturgico, ma offerta di Cristo al Padre per mezzo del povero [19]. L'identificazione dell'Eucaristia con il povero permette al Crisostomo di collegare intimamente il corpo eucaristico al corpo ecclesiale: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurare la sua nudità; non onorario qui con vesti di seta, non trascurarlo fuori mentre è consunto dal freddo e dalla nudità. Colui infatti che ha detto: Questo è il mio corpo, e ha confermato il fatto con la parola, ha detto: "Mi avete visto affamato e non mi avete nutrito", e: "Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi più piccoli, non l'avete fatto a me". Questo non ha bisogno di vesti, ma di un'anima pura; quello invece ha bisogno di molta cura».
«[...] Che vantaggio c'è se la sua mensa è piena di calici d'oro e lui è sfinito dalla fame? Prima sazia la sua fame e poi, per sovrappiù, orna anche la sua mensa. Fai un calice d'oro e non dai un bicchiere d'acqua fresca? E che vantaggio c'è? Prepari per la mensa paramenti ricamati in oro e non gli offri nemmeno il rivestimento necessario? E che profitto ne deriva? Dimmi, se, vedendo uno privo del nutrimento necessario, senza curarti di eliminare la sua fame, ricoprissi soltanto la mensa di argento, ti sarebbe forse grato o non si irriterebbe maggiormente? [...] Considera questo anche nei riguardi di Cristo, quando va incontro ramingo e straniero, bisognoso di un tetto; tu però, senza curarti di accoglierlo, abbellisci il pavimento, i muri, i capitelli delle colonne e attacchi alle lampade catene d'argento, mentre non lo vai a vedere nemmeno incatenato in carcere. Dico questo non per proibire di impegnarsi in queste cose, ma per esortare a fare queste cose insieme a quelle, anzi a fare quelle prima di queste» [20].
Per Giovanni Crisostomo i cristiani sono coloro che dimostrano la carità con le azioni: «Se vediamo uno maltrattato e percosso nella pubblica piazza, se possiamo elargire del denaro, facciamolo; se possiamo risolvere la situazione con le nostre parole, non esitiamo. C'è una ricompensa anche per le parole, anzi anche per i gemiti e questo diceva il beato Giobbe: Ho pianto per ogni persona debole, ho emesso gemiti vedendo un uomo nella necessità (30, 25) [...] vedi che si ingiuriano, si fanno a pezzi, si lacerano la veste, si percuotono il volto e tolleri di assistere tranquillo? Non essere spettatore, separali; non rallegrarti, ma correggi li; non incitare altri a questa indecenza, ma tieni lontani e separa quelli che sono venuti alle mani [...] Va' dunque e arresta il male e tira su coloro che stanno affogando, scendendo nello stesso mare in tempesta; metti fine a questo spettacolo diabolico, prendi ciascuno da parte ed esorta a reprimere la fiamma della passione e a placare i marosi. Non aver paura se il rogo diventa più grande e la fornace più violenta; hai molti che ti coadiuvano e porgono una mano, se soltanto cominci e prima di tutti il Dio della pace» [21].
Le parole di Giobbe citate dal Crisostomo ci permettono di comprendere che essere cristiani significa vivere immersi e incarnati nell'oceano di questo mondo. Siamo chiamati, dunque, a vivere con chi è sommerso dal fango di questo mondo, dalla miseria di questa vita per risollevarlo e fargli gustare la bellezza della risurrezione. Più volte Crisostomo propone la figura di Giobbe come modello da imitare, perché non aveva una concezione esclusivista della ricchezza, ma ne era solo amministratore, in modo che ad essa potessero attingere tutti coloro che si trovavano nella necessità (cf. Hom 1 Tim 12).
Ricchezza e povertà per Crisostomo hanno la stessa origine divina, perché dall'incontro del ricco con il povero appare lo splendore dell'uno e l'umiltà dell'altro: «Il ricco e il povero s'incontrano in questo: il Signore ha creato l'uno e l'altro» (Pro 22,2). Dio ha dato ad entrambi i beni fondamentali, quali l'anima e il corpo, uguali per tutti, senza alcuna discriminazione; questa pedagogia divina insegna a mettere in comune anche i beni secondari che sono motivo di divisione tra ricchi e poveri. Ogni forma di ingiustizia sociale non può dunque essere attribuita al Signore, ma all'egoismo e alla cupidigia dell'uomo.

Conclusione
Origene e Crisostomo ci presentano la povertà come possibilità per una vera sequela del Cristo. Più volte abbiamo incontrato in ambedue gli autori l'identificazione del povero con Cristo e del corpo eucaristico con il corpo ecclesiale. Quando il Figlio dell'Uomo verrà nella gloria saremo giudicati sulla carità che avremo usato nei confronti dei fratelli più bisognosi. Il giudizio finale svelerà la verità profonda della nostra vita e della nostra vocazione. Quando avremo visitato uno dei nostri fratelli infermi o avremo corretto, consolato un fratello afflitto, per Origene e Crisostomo, avremo visitato e confortato Cristo. Le membra del corpo di Cristo soffrono e gemono come lo stesso Cristo che rifiutato dai suoi ha patito sull'albero della croce ed è risorto per la nostra salvezza. La diaconia ecclesiale è dunque espressione della stessa diaconia di Cristo che ha scelto di farsi povero con i poveri [22]. In modo particolare i diaconi, ministri di Dio e di Cristo, sono chiamati a evitare la calunnia, la doppiezza di linguaggio, l'amore al denaro e ad essere misericordiosi, zelanti, a camminare nella via della verità tracciata dal Signore, il quale si fece servo di tutti [23].

(C. Cerami è direttore del Centro regionale per la formazione permanente del clero "Madre del Buon Pastore" e docente di patristica nella Facoltà Teologica di Sicilia)

Note:
[1Un uomo perdonato, in «L'Osservatore Romano», 3 dicembre 2015,5.
[2] Cf. J. Daniélou, Origene. Il genio del Cristianesimo, Roma 1991, p. 9.
[3] Cf. M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, SEA 23, Roma 1985, p. 73-98.
[4] Cf. R. Scognamiglio, Povertà/Ricchezza, in Origene Dizionario, a cura di A. Monaci Castagno, Città Nuova, Roma 2000, p. 355-359.
[5] Cf. Cm Mt 73: Origene, Commento a Matteo Series/1, a cura di G. Bendinelli, Città Nuova, Roma 2004, p. 447.
[6Cm Mt 72, p. 437.
[7] Cf. A. Monaci Castagno, "Moyses stella est in nobis" (Hom Gen l,l): l'interpretazione origeniana della figura di Mosè, in ASE 2 (1985)161-174.
[8] Cf. Cm Mt 12,38: «Vesti di Gesù sono le parole e le lettere dei Vangeli, di cui si è rivestito. Ma penso che vesti di Gesù siano anche le rivelazioni su di lui che troviamo presso gli apostoli, vesti che diventano candide per quelli che ascendono sull'alto monte in compagnia di Gesù. [...] Quando dunque vedrai che uno non soltanto conosce esattamente la divinità di Gesù, ma spiega anche ogni testo dei Vangeli, non esitare ad asserire: per tale uomo, le vesti di Gesù sono diventate candide come la luce».
[9Cm Mt 12, p. 149.
[10Cm Mt 13, p. 443.
[11Hom Mt 19,1 (CTP 172, 243).
[12Hom Mt 88,3 (CTP 172, 362).
[13Hom Mt 85,3 (CTP 172, 327-328).
[14Hom Mt 85,4 (CTP 172, 329).
[15Hom Mt 45,3 (CTP 171, 290-291).
[16] Cf. J. Quasten, Patrologia, vol. 2, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 430.
[17] Cf. V. Grossi-A. Di Berardino, La Chiesa antica: ecclesiologia e istituzioni, Boria, Roma 1984, p. 104.253; A. Rotondo, Il diaconato in Giovanni Crisostomo (Act. 6,1-7) , in Diakonia, Diaconiae, Diaconato. Semantica e storia nei Padri della Chiesa. XXXVIII Incontro di studiosi dell'antichità cristiana, Studia Ephemeridis Augustinianum 117, Roma 2010, p. 277-293.
[18] Crisostomo si rivolge ai diaconi che distribuivano l'Eucaristia. Hom Mt 82,6 (CTP 172, 294-295).
[19] Cf. Y. De Andia, Liturgie, diaconie des pauvres et theologie du corps du Christ chez Saint jean Chrysostome, in Diakonia, Diaconiae, Diaconato, (op.cit.), p. 245-260.
[20Hom Mt 50, 3-4 (CTP 171, 358-360).
[21Hom Mt 15,10 (CTP 170, 283-285).
[22] Il vescovo di Nicosia mons. Salvatore Muratore nella lettera pastorale "Il respiro dell'amore" si rivolge ai diaconi esortandoli ad essere segno della bellezza della reciprocità sponsale, a innervare di gratuità e di dono tutte le azioni pastorali e a indicare alla chiesa la via del servizio generoso attraverso le periferie dell'umano che l'amore di Dio ha raggiunto in Cristo Gesù: cf. S. Muratore, Il respiro dell'amore, lettera pastorale, Nicosia 2015, p. 101-104.
[23] Cf. Policarpo, Lettera ai Filippesi, in I Padri Apostolici, a cura di A. Quaquarelli, CTP 5, Roma 1994, p. 156.


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