V Domenica di Quaresima (C)


ANNO C – 13 marzo 2016
V Domenica di Quaresima

Is 43,16-21
Fil 3,8-14
Gv 8,1-11
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LA FEDE SERVE
A RICOMINCIARE

Uno degli elementi fondanti dell'esperienza del popolo d'Israele è quello della memoria; il suo stesso credo è memoria. Il centro del credo, infatti, è il ricordo della liberazione dall'Egitto e il passaggio nel mar Rosso. Isaia teme, però, che il ricordo del passato non permetta di guardare avanti; teme che la memoria diventi una nostalgia per cui tutto il bene è accaduto e niente di buono è nell'oggi e nel futuro. Si capiscono così le sue parole di meraviglia di fronte all'incapacità del popolo di cogliere i segni della novità, di un esodo che sempre ricomincia. Il passato senza futuro fa aggrappare a ricordi che scoloriscono sempre di più e diventano incapaci di sostenere il cammino. Nelle parole di Isaia questa è una questione di fede: chi crede, infatti, non pensa che Dio abbia a che fare solo con gli eroi del passato.
Memoria o nostalgia? È questo il confine che rende l'esperienza del credente una spinta potente a rintracciare i segni della forza di Dio nella sua vita e in quella del tempo in cui vive oppure un'esperienza che si scolora ogni giorno di più. Una memoria si trasmette per incoraggiare a credere che quello che è accaduto, accade ancora e accadrà, mentre una nostalgia si perde nelle sensazioni ed emozioni che non si possono trasmettere. Chi fa memoria trasmette speranza, chi è nostalgico trasmette tristezza. È bene interrogarsi ogni tanto se nelle nostre comunità regna la nostalgia degli eroi del passato con la tristezza delle cose che non sono più, o l'entusiasmo di chi scorge le cose nuove che iniziano.

L'apertura al futuro è quello che Paolo sottolinea della sua esperienza di cristiano che, dopo l'incontro con Cristo, non dà più valore alle cose che fino a quel momento erano state importanti. Più che il disprezzo per l'esperienza religiosa precedente alla vocazione cristiana, si coglie la consapevolezza che non è il passato, per quanto nobile, a contare ma il presente di Cristo, la comunione con lui. In un'immagine molto plastica, Paolo descrive sé stesso come un corridore che si getta verso il traguardo, senza voltarsi indietro, nemmeno per controllare quanto sia piccolo o grande il suo vantaggio. Corridori protesi verso la meta, con davanti agli occhi solamente lo striscione del traguardo, in quel momento in cui non si sente più la fatica, nemmeno le voci delle persone intorno, concentrati verso la vittoria. La vita cristiana è una corsa che si corre con Cristo come compagno, con lui si fatica, si soffre, ma anche s'impara a sperare nel traguardo, che è la risurrezione, la vita eterna. Una corsa verso la risurrezione, con la consapevolezza che per arrivarvi bisogna affrontare allenamenti estenuanti e sconfitte brucianti. Tutto ciò che è di peso, che rallenta la corsa, si lascia cadere; anche, come succede per Paolo, le proprie convinzioni più forti e i fallimenti più duri.

L'episodio che racconta l'evangelista Giovanni ha come cornice l'orto degli ulivi e il tempio, acquistando così una solennità che supera l'evento stesso. Mentre insegna Gesù si trova a essere interpellato come giudice in un caso di adulterio, a lui è richiesto un parere sulla legge di Mosè. Come chiarisce Giovanni, la trappola è evidente. Che cosa farà, cosa risponderà ? Terrà conto della Legge, perdendo così la sua aura di maestro buono oppure si atterrà a criteri di tolleranza e di umanità, perdendo credibilità come maestro di fede? L'opposizione tra religiosità e umanità è qui drammatica. La risposta di Gesù dev'essere interpretata come gesto profetico. Le sue parole, che chiedono a quelli che già pregustavano il successo del loro tranello di giudicare in base alla propria vita, acquistano un aspetto di sfida, perché prima di pronunciarle e dopo Gesù scrive per terra.

Le parole della Legge, senza riferimento alla condizione delle persone, sono come parole scritte sulla sabbia, non hanno consistenza, non servono, se ne perde memoria. I sassi che restano attaccati alla mano dei candidati lapidatori, che si allontanano umiliati, sono il simbolo dell'inefficacia della religione senza fede in Dio e nell'uomo. È proprio la fede nella donna a concludere il racconto. Gesù ha fede in lei. Il racconto non parla della fede della donna in lui e nemmeno fa prevedere l'effetto che le parole di quel maestro hanno sulla sua vita, ma sottolinea che Gesù ha fiducia in lei. Il racconto pone molti problemi riguardanti il diritto e altro che, però, appaiono come secondari. La tensione tra la necessità di riferirsi alla fede come a un patrimonio da custodire e difendere a tutti i costi e quella d'interpretarla, invece, come spinta ad abitare il presente e progettare il futuro è sempre presente.
La tensione nasce quando la difesa del passato si trasforma in attività di restauro permanente e l'apertura al futuro fa perdere completamente la memoria. Una fede senza memoria e una senza futuro è come un disegno fatto sulla sabbia; si può passare tutto il tempo che si vuole a ricostruirlo, ma sarà un tempo inutile. La fede vera serve a vivere, o altrimenti non serve. Non serve fede per analizzare i propri fallimenti e trovarsi a pagare il conto dei propri errori; la fede serve a ricominciare. Proprio la poca disponibilità che si avverte nella nostra cultura a dare possibilità di futuro a chi sbaglia, l'ossessione delle regole, la rende sempre più simile a un pretenzioso castello di sabbia.

VITA PASTORALE N. 2/2016
(commento di Luigi Vari, biblista)

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