IV Domenica di Quaresima (C)


ANNO C – 6 marzo 2016
IV Domenica di Quaresima

Gs 5,9a.10-12
2Cor 5,17-21
Lc 15,1-3.11-32
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NON PIÙ SERVI
MA FIGLI AMATISSIMI

Il libro di Giosuè narra uno dei momenti più belli della storia del popolo di Israele, quello dell'ingresso nella terra promessa. Poco prima di questo ingresso gli ebrei celebrano la Pasqua, che mai come allora fu celebrazione del passaggio dall'errare in territori stranieri all'entrare nella terra propria. Il segno del salto di condizione è evidenziato dalla possibilità di mangiare i prodotti della terra e dalla fine della manna. La notizia che il popolo non ha più la manna non è negativa, ma ha il sapore della bella notizia: il popolo può vivere del lavoro delle proprie mani nella sua terra. Al termine del viaggio di liberazione, la fine della manna dà come l'impressione che Dio si metta da parte; proprio nel momento in cui le sue promesse si dimostrano vere e quelli che si sono fidati di lui hanno ragione, proprio allora toglie il segno più evidente della dipendenza del popolo dalla sua provvidenza.
Il risultato dell'azione di liberazione che Dio compie verso il suo popolo, è che il popolo è libero, che può provvedere con le proprie mani ai suoi bisogni, fare le proprie scelte e decidere se mantenere Dio nel suo orizzonte; in qualche modo è libero anche dall'evidenza di Dio. Dio non si assenta dalla storia del suo popolo, ma da adesso sarà necessario cercarlo. La non evidenza di Dio rende il cammino del credente, un viaggio compiuto da libero.

Anche Paolo racconta di un passaggio che si verifica nella vita del cristiano, il passaggio alla condizione di nuova creatura. La novità è la caratteristica fondamentale che l'Apostolo sottolinea, anche perché era avvertita come caratteristica fondamentale del tempo messianico. Una nuova creazione abitata da nuove creature. Quanto dice serve per ribadire la sua convinzione che l'azione di Cristo è determinante per la liberazione del mondo dalla legge del peccato, cioè dalle divisioni, dalle inimicizie e dalla morte. L'Apostolo dice di sé stesso di essere ambasciatore per esortare a non restare fuori da questa novità e, facendo riferimento al sacramento del battesimo, di unirsi a Cristo. Molte speranze e progetti di vita muoiono nel mare del conformismo, nella convinzione che nessuno può fare qualcosa di veramente diverso per cui prima o dopo molti si arrendono. Il salto lo fanno quelli che credono nella novità e sono consapevoli che per farlo c'è bisogno di aggrapparsi a qualcuno capace di saltare. Saltare è il significato della parola ebraica pasqua, e il salto fondamentale è quello dalla morte alla vita, con la conseguenza che chi salta inizia a vivere con regole diverse, giudizi e comportamenti diversi, quelli che hanno il sapore della vita. Chi annuncia il Vangelo, dice Paolo, è come un ambasciatore che chiede di vivere questa novità, non un invito generico, ma un'indicazione concreta: fidati di Cristo, aggrappati a lui, diventa una cosa sola con lui. Fidati del tuo battesimo.

Fra le perle del vangelo di Luca c'è il capitolo 15, quello che raccoglie le parabole della misericordia, e, fra queste, la parabola del figliol prodigo è la più articolata e drammatica. Gesù la pronuncia in risposta alla critica dei farisei per il suo comportamento verso i pubblicani e i peccatori, una critica molto dura che metteva in dubbio la sua identità di rabbi, di profeta, di uomo di Dio; figurarsi quella di Messia. La parabola si apre con la scena del dialogo tra un figlio e suo padre, con la pretesa di quello di vedersi anticipata l'eredità. La pretesa non era così fondata, e già questo mette in scena la pazienza del padre e lo stordimento del figlio, che in poco tempo si riduce in povertà. La sua condizione d'isolamento e mancanza di cibo è una carestia di mezzi e di persone, che presto diventa anche mancanza di stima di sé fino a desiderare il cibo dei maiali.
La carestia del cuore è contagiosa, si trasmette a tutta la regione; si descrive così la tragedia del peccato. La scena successiva descrive il ragazzo che cerca una via di uscita, fa un ragionamento in cui non ha nessun posto il pentimento per aver offeso il padre, ma solo il calcolo per ritrovare una vita decente, non gli importa della sua relazione di figlio, alla quale ha già rinunciato; gli basta quella di servo a dire che non si esce da soli dal male. Il padre che vede il figlio da lontano apre uno spiraglio di speranza; il padre, che non ha mai rinunciato alla sua paternità, impedisce al figlio di finire il discorso da servo e si riferisce a lui come al figlio finalmente ritrovato.

Le ultime due scene mostrano il figlio maggiore che, pur non avendo mai rinunciato al suo status di figlio, di fatto, ragiona da servo, unendo il padre e il fratello in un'unica condanna. Il racconto si chiude con questo padre che va a scusarsi con il figlio, spiegando le ragioni dell'amore e della misericordia. I ragionamenti da servi sono quelli più logici, hanno la forza dell'evidenza. Chi può mettere in discussione i diritti del figlio minore a farsi una vita e quelli acquisiti dal maggiore, che ha continuato a fare il suo dovere? Se diamo retta alle evidenze, l'unico che si comporta male è il padre: niente di quello che fa segue la legge dell'evidenza. L'unico sul banco degli accusati è chi vuole che i figli siano figli e non servi. C'è in entrambi i figli una disumanizzazione, di cui siamo testimoni un po' tutti, che può essere fermata solo da Dio e da quelli che, suoi ambasciatori, s'impegnano perché si ragioni da figli e non da servi.

VITA PASTORALE N. 2/2016
(commento di Luigi Vari, biblista)

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