III Domenica di Quaresima (C)


ANNO C – 28 febbraio 2016
III Domenica di Quaresima

Es 3,1-8a.13-15
1Cor 10,1-6.10-12
Lc 13,1-9
(Visualizza i brani delle Letture)


UNA PIANTA
CHE NON DÀ FRUTTO

Fuoco, curiosità, meraviglia, vocazione, rivelazione del nome, missione; in questo brano dell'Esodo c'è tantissimo su cui riflettere, studiare e pregare; non è possibile farlo qui e nemmeno in un'omelia. Il centro del brano è certamente quello della rivelazione del Nome a Mosè. La missione che Mosè riceve permette di leggere queste righe anche come la storia della sua vocazione; dove s'incontrano la condizione del chiamato, solo un pastore, un fuggiasco deluso da sé stesso e dalle persone che voleva aiutare, la sua mancanza di mezzi, evidenziata dalle parole di Mosè e la grandezza del compito di liberare il popolo dalla schiavitù degli egiziani e condurlo verso una terra nuova.
La difficoltà di Mosè apre alla rivelazione del Nome che non è soddisfare una curiosità, ma la garanzia della missione. Il Nome è la forza di Mosè, è un incoraggiamento tale da renderlo capace di fare quello che pensava di non poter fare; per questo motivo, oltre che per molte considerazioni inerenti alla grammatica e al pensiero ebraico, va letto non solo come un'affermazione di essenza: Io sono colui che sono; ma come affermazione di esistenza, cioè, io ci sono, ci sono stato e ci sarò. Mosè può andare non solo perché convinto dell'esistenza di Dio, ma perché convinto della sua presenza nella sua missione, nella sua vita.
Che cosa importa dire che Dio c'è, essere convinti della sua esistenza, cercare argomenti per affermarla o per negarla; il problema di Mosè non era quello di essere un ateo, ma quello di essere una persona delusa che magari aveva concluso che Dio non c'entrasse niente con la sua vita, che Dio di cui la madre nutrice gli aveva parlato, quello che si prendeva cura della sua gente, era solo una fantasia, perché Dio, c'è o non c'è, non si cura di noi. La scoperta di Mosè è che, invece, in quella sua vita intricata e senza frutto, un rovo, Dio c'entra, non è indifferente, conosce, ascolta, agisce. Io ci sono! Su questo Mosè potrà contare sempre, come la storia dell'Esodo insegna.

Paolo porta il lettore al momento successivo alla vocazione di Mosè e alla liberazione del popolo d'Israele. Descrive il popolo nel deserto e riflette su come tutti erano protagonisti allo stesso modo del cammino, tutti facevano esperienza della stessa provvidenza, c'è anche una parentesi tipo logica quando dice che la roccia da cui bevvero nel deserto era Cristo. L'esperienza è la stessa, ma molti non terminarono il cammino; avevano Dio davanti agli occhi, ma non gli permettevano di essere presente nella loro vita e avevano altri pensieri e progetti. Il verbo che dice questo atteggiamento di rifiuto è il verbo mormorare, rimuginare fino al punto di non rendersi conto della verità delle cose. Anche i cristiani possono cadere in questo tranello di avere Dio davanti agli occhi e non nel cuore; è, dice Paolo, un rischio molto forte e ammonisce: chi è in piedi, guardi di non cadere.
L'unica presenza di Dio che rende fermo il cammino del credente è quella che si afferma nel cuore di chi crede e si traduce in gesti, pensieri e desideri. Questa presenza è minacciata dalla mormorazione, cioè dal ripiegarsi in sé stessi fino a perdere di vista ogni altra cosa; come gli ebrei nel deserto, mentre camminano verso la libertà, negano l'evidenza del viaggio. Chi mormora cerca conferme alla sua disperazione, chi alza lo sguardo trova motivi alla sua speranza. Oggi l'atteggiamento della mormorazione è molto comune, sia nei confronti di Dio che degli altri ed è distruttivo. Paolo avvisa che è molto facile abbassare lo sguardo, cadere a terra; bisogna vegliare, perché non accada.

Luca mostra Gesù prendere spunto da uno dei più feroci episodi di repressione delle numerose rivolte contro i dominatori romani, nominando Pilato, autore di un gesto inqualificabile. È stata un' ingiustizia che non si può giustificare, che toglie legittimità a Pilato, ma anche a chi pensa, come i suoi interlocutori, che se uno subisce il male è perché, in qualche modo, se lo è meritato. L'episodio del crollo della torre di Siloe, dove non c'è nessuna azione che possa dar luogo a una reazione, rende ancora più forte l'evidenza del ragionamento di Gesù. Chi pensa di essere giusto e colpevolizza gli altri delle loro sofferenze, non conosce nulla di Dio; lo ha davanti agli occhi, nei precetti della legge che osserva, ma non nel cuore, Dio non c'entra con la sua vita. Questo è il peccato, che porta alla distruzione chi pensa di giudicare gli altri. Una parabola rende efficace le parole di Gesù, che descrive un fico oggetto di molte cure da parte del vignaiolo, ma che non dà frutto. La cura si trasforma in attesa paziente, ma non si può rinunciare al frutto, perché una pianta che non lo dà impoverisce la terra in cui è piantata e il frutto delle altre.
Avere Dio come evidenza del cuore permette di vedere le cose con i suoi occhi e nutrire gli stessi sentimenti che sono suoi, condividere le sue attese. Quando si avverte che la propria fede non cambia in niente il modo di giudicare le cose, non aiuta a condividere le sofferenze e le speranze degli altri, allora essa è come un albero che non da alcun frutto, è per Dio una delusione e per chi la vive un'illusione pericolosa. Infatti, quel tipo di fede tende a morire. Gesù è il contadino paziente della fede, ma non può sostituirsi al frutto; è un contadino che cura oltre il dovuto, ma capace anche di arrendersi.

VITA PASTORALE N. 1/2016
(commento di Luigi Vari, biblista)

--------------------
torna su
torna all'indice
home