V Domenica di Pasqua (C)


La Parola
Commento di Luigi Vari
Vita Pastorale (n. 3/2016)



ANNO C – 24 aprile 2016
V Domenica di Pasqua

At 14,21b-27
Ap 21,1-5a
Gv 13,31-33a.34-34
(Visualizza i brani delle Letture)


AMARE COME
CRISTO CI HA AMATO

Il brano degli Atti degli apostoli mostra Paolo e Barnaba che tornano nelle giovani comunità che avevano appena fondato per confermarle nella fede, che, come apprendiamo dalle parole dei due, conoscevano delle tribolazioni che la mettevano in pericolo. Perché nessuno si senta solo o abbandonato nelle prove e nel cammino di fede, gli apostoli abbozzano una piccola organizzazione delle Chiese, scegliendo alcuni presbiteri, che affidano con la preghiera al Signore. L'accenno ai presbiteri e il fatto che questi non sono eletti dalla comunità, ma stabiliti dagli apostoli, fanno di questo un passo discusso. Coerentemente all'organizzazione delle comunità come necessaria alla crescita della fede, i due sentono il bisogno di tornare alla loro comunità di partenza per raccontare quello che era accaduto, soprattutto come, Cristo avesse aperto ai pagani la porta della fede.
È bene cercare di immaginare la meraviglia di Paolo e di Barnaba di fronte all'adesione alla Parola di quelli che agli inizi del cammino della Chiesa non erano nemmeno previsti come destinatari, i pagani. È bene anche immaginare la loro ansia al pensiero di aver osato troppo e che qualcuno provvedesse a far chiudere la porta della fede, che Cristo aveva spalancato per mezzo loro. Cristo spalanca le porte che noi tendiamo a chiudere o, al massimo, a socchiudere con molti punti di domanda. È bene, infine, riflettere che l'organizzazione della Chiesa nasce per prendersi cura e dare sostegno alla fede dei cristiani che si trovano nelle tribolazioni. La domanda è questa: se le nostre comunità sono porte di fede e se vivono la loro vocazione di essere al servizio della fede di chi è provato.

La novità caratterizza la pagina dell'Apocalisse, che parla del momento del superamento della vecchia creazione, caratterizzata dal dominio del male, e la nascita di quella nuova. In questa nuova creazione Dio pone il segno della sua presenza, la nuova Gerusalemme, che è paragonata a una sposa che si è preparata per incontrare il suo sposo. Una voce accoglie questa ragazza che incede e la presenta come la tenda di Dio con gli uomini, il segno della presenza di Dio, che è descritto come una mano che asciuga le lacrime dagli occhi, una mano che consola, come fa una mamma con il suo piccolo, rassicurandolo che quello che l'ha fatto piangere, è passato.

In questa visione dell'Apocalisse è come se Dio volesse lasciare, negli occhi della comunità riunita a Patmos, il suo sogno di Chiesa per spingerla a realizzarlo e a fare di questo il motore per superare tutte le difficoltà e le contraddizioni. La Chiesa che Dio sogna è bella, proprio come una sposa, che, tutti lo sanno, nel giorno del matrimonio è capace di rendere bello il mondo attorno, rendere belli con fiori e colori, anche gli angoli più brutti. La Chiesa che Dio sogna sta nel mondo come segno della sua presenza, che essa testimonia asciugando le lacrime e insegnando che la morte è sconfitta in Cristo risorto, dicendo, proprio come una mamma al suo bambino: è passato.

Il brano di Giovanni unisce al tema della glorificazione del Figlio dell'uomo quello del comandamento dell'amore. Il passaggio da un tema all'altro rappresenta uno dei cardini nella costruzione del Vangelo, il tema della glorificazione chiude una parte del Vangelo e quello dell'amore ne inizia un'altra. Il tema della glorificazione è unito a quello dell'ora, nel senso che dal momento in cui Giuda esce dal cenacolo per concludere quello che doveva fare, il destino di Gesù è già considerato compiuto e per questo lui ne parla come di un evento già passato. La morte è già superata, il suo sguardo è concentrato sulla gloria della risurrezione; gloria per lui, e gloria di Dio, che nella vittoria di Cristo, mostra la sua potenza.
Il comandamento dell'amore, che subito segue, può essere letto in continuità come la strada del cristiano per essere associato alla vittoria di Cristo, al suo cammino di gloria. L'amore reciproco è il segno distintivo dei cristiani, esso non risponde a una necessità psicologica o a uno sforzo della volontà, e nemmeno rappresenta un omaggio alla memoria di Gesù, ma è il segno della presenza del Risorto nella comunità, che ama perché impara da Cristo ad amare. Per quanto se ne possano trovare altri, non c'è nessun altro segno della presenza di Cristo che possa essere dato, più efficace, espressivo e vero dell'amore verso gli altri. L'amore è il modo che un discepolo di Cristo sceglie per confinare nel territorio del passato le esperienze che appartengono al mondo della morte e che condizionano pesantemente la vita di ogni persona. A chi appartiene questa forza che permette di capovolgere l'abitudine di parlare dell'amore al passato e delle delusioni al presente? Solo a Dio, è forse questo il senso della seconda parte del comandamento che chiede di amare come Cristo ha amato. Più che un comandamento è un incoraggiamento a trasformare i cammini difficili in cammini di gloria, a capovolgere la regola per cui spesso anche i cammini più gloriosi naufragano miseramente per l'egoismo, la superbia e la meschinità. Oltre che un incoraggiamento è anche una garanzia, perché non solo si vede in Cristo la possibilità dell'amore, ma si avverte che insieme alla richiesta c'è la promessa di insegnare quel modo di amare e di sostenere il discepolo che vi si impegna.

--------------------
torna su
torna all'indice
home