Il diaconato in Italia n° 193
(luglio/agosto 2015)
INTERVISTA
Le nostre comunità offrono punti di riferimento
di Giorgio Agagliati
Mons. Giuseppe Anfossi, vescovo emerito di Aosta, è uno dei massimi esperti di pastorale familiare della Chiesa italiana, e ha ricoperto l'incarico di delegato arcivescovile per la famiglia e i giovani nella Diocesi di Torino, per poi diventare, nel 1992, direttore dell'Ufficio nazionale Pastorale della Famiglia della CEI. Dal 2005 ha presieduto la Commissione Episcopale per la Famiglia e la Vita. Giorgio Agagliati lo ha intervistato per i nostri diaconi.
Di fronte a una crisi familiare spesso c'è rassegnazione, come se non si potesse far nulla. È proprio così? E cosa, invece, si può fare?
C'è rassegnazione, è vero. Ma c'è anche molta speranza, che viene dal Sinodo, una speranza che però ha bisogno di trovare conferme. Da un lato, attraverso la testimonianza di singole famiglie, parrocchie, associazioni che confermino nella loro esperienza che la famiglia è chiamata a una bella avventura, non a una crisi, e che anche attraverso una crisi questa bella avventura si può riscoprire e addirittura rendere più forte. Esperienze come quella Retrouvaille, un aiuto a non separarsi, dimostrano che da una crisi di può uscire più forti, se entrambi gli sposi lo vogliono e sono validamente aiutati a rifare questa scelta di fedeltà.
Il diacono è prima di tutto un animatore della comunità. Quali indicazioni può dare perché ci sia attenzione e sensibilità verso le famiglie ferite?
Molti diaconi sono testimoni, magari non tutti, ma molti sì. Ma non possono agire da soli. Devono contribuire a individuare e mettere in gioco quel qualcosa in più che consente di intervenire nelle situazioni concrete. Mi spiego: se c'è una comunità, ci sono dei gangli, dei punti di riferimento, persone in coppia in grado di giocare un valido ruolo di aiuto. Primo compito del diacono è quindi quello di sostenerli e farli emergere.
Personalmente, il diacono deve dare testimonianza di sapere accogliere le situazioni difficili senza "fare drammi" e soprattutto senza giudicarle, e, oltre ad accompagnarle direttamente se è in grado di farlo, indirizzarle a quei punti di riferimento con cui possano parlare della loro situazione.
Quando si viene a conoscenza di una crisi in atto, spesso si teme di violare la sfera di autonomia se si interviene. Nella sua esperienza, dove corre il confine tra sollecitudine e invadenza?
Il confine è delicato e instabile, ma possiamo definire un criterio: siamo tanto più in imbarazzo quanto più ci mancano quei punti di riferimento validi di cui parlavo prima. Allora non sappiamo cosa fare e finisce che "ci asteniamo". Se invece esistono famiglie e gruppi di famiglie di cui sia noto che sono intervenuti in situazioni difficili e sanno come fare, allora è più facile farsi prossimo alle famiglie in crisi anche solo per indirizzarle verso questi punti di riferimento.
Le leggi (es., divorzio breve) determinano/favoriscono un indebolimento del senso del matrimonio e della famiglia, o si limitano a dare un quadro normativo a un fenomeno che si è già compiuto?
La risposta dipende dalla situazione delle persone e delle comunità. Per alcuni le norme civili sono niente altro che un dare ordine a situazioni già esistenti e così possono contribuire a chiarire le idee. Per altri, anche per molti cristiani con una debole identità e poca adesione ai valori, la legge esercita invece un influsso pedagogico negativo, al punto da ritenere di poterla utilizzare a prescindere dalla fedeltà al Vangelo: se la legge civile consente a tutti di divorziare o fare altro, allora posso farlo anch'io...
Le linee del Magistero sull'importanza di accogliere e accompagnare le famiglie e i singoli che vivono l'esperienza di un divorzio e di un nuovo matrimonio sono chiare. Ma nel concreto le nostre comunità sono realmente accoglienti e sanno come porsi verso queste situazioni?
Le linee del Magistero sono note soprattutto agli "addetti ai lavoro", ma forse non sono abbastanza conosciute e abbastanza chiaramente spiegate alla generalità delle persone nelle nostre comunità. E forse anche per questo le nostre comunità non sono molto accoglienti, e le stesse persone che vivono queste situazioni si sentono in condizioni peggiori, di maggiore esclusione di quanto non sia nella realtà ecclesiale. Basti pensare che c'è chi confonde l'impossibilità per il divorziato risposato di ricevere la Comunione con l'essere "scomunicati"!
Qui il diacono può veramente far sì che la comunità sia più accogliente, che vuoi dire anche rispettare i tempi, favorire colloqui di lui e lei anche singolarmente, offrire un accompagnamento che non sia solo quello dell'avvocato divorzista, che spesso finisce per essere l'unico punto di riferimento e l'unico argomento di dialogo per le coppie in fase di separazione o divorzio. Il diacono può aiutare le coppie a rispondere alla domanda: "com'è il mio rapporto personale con il Signore?". Penso al rapporto che tocca la fede.
Torno comunque a ribadire che se le comunità fanno fatica ad accogliere queste situazioni è soprattutto perché non hanno, o non sanno di avere nel proprio seno esperienze e prassi valide da offrire alle coppie in crisi e alle famiglie ferite.
Quali sono i suoi auspici e le sue previsioni per il Sinodo sulla famiglia?
Che il Sinodo prenda in considerazione queste situazioni e in particolare compia passi avanti in tre ambiti. Primo, le convivenze: nelle coppie che vivono esperienze imperfette di famiglia, la Chiesa riconosca gli elementi positivi che vi si possono realizzare, come ad es. una buona educazione umana e cristiana dei figli, la presenza della preghiera, ecc.
Secondo: ci vuole una riflessione su come trattare i casi irreversibili, le coppie nuove tenute alla loro novità, serve una prassi di rispetto e se possibile anche di superamento della situazione attuale, in particolare per l'accesso all'Eucaristia.
Terzo: la Chiesa non si consideri "comunità dei puri", ma comunità di tutti, anche delle persone che hanno sì compromesso qualcosa di grande, ma potrebbero ricominciare a costruire, nella fede, la "bella avventura" della famiglia.
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