Il diaconato in Italia n° 193
(luglio/agosto 2015)
EDITORIALE
Curare credendo nella Parola
di Giuseppe Bellia
Sui dramma delle famiglie ferite e sulle proposte di sostegno avanzate per aiutarle, la riflessione pastorale, in verità più attenta agli aspetti morali che a quelli teologici, negli ultimi due anni ha registrato un confronto acceso non privo di asperità. È sotto gli occhi di tutti che il dibattito si sia radicalizzato, anche a causa di un'informazione maldestra e fuorviante, pronta a consegnare al popolo cristiano notizie sommarie e, spesso, di parte. In ogni caso, nell'attesa della prossima assemblea sinodale, sembra che il confronto abbia raggiunto una situazione di stallo tra quelli che una malaccorta terminologia politica considera difensori della conservazione e gli esponenti del liberal-progressismo. Una dissonanza difficile da conciliare tra quanti sentono ineludibile la difesa della verità cristiana sul Matrimonio, conservata in Occidente da una tradizione sacramentale millenaria, e quanti invece affermano che la compassione, la misericordia, finalmente la carità è la vera misura storica innovativa richiesta dal Vangelo anche sul matrimonio e sulla famiglia. Le due tendenze, anche se arroccate su principi ineludibili di verità e carità, procedono su piani dottrinali di moralità parallele, facendo entrambe appello alle Scritture, o meglio a parziali riferimenti biblici.
In questa prospettiva, anche operando opportune correzioni di tiro e apportando avveduti aggiustamenti pastorali, le due visioni non sono destinate a incontrarsi, almeno nel breve termine. Si tratta però di concezioni dottrinali e non teologali come a rigore richiederebbe il mistero di Cristo e della Chiesa di cui maschio e femmina, la coppia e il matrimonio cristiano sono calco, copia, figura. Corrispondenza concreta, tra il primo uomo e il vero Adamo, generata dal sacramento che rinvia a quell'immagine e a quella somiglianza originarie volute in principio e per sempre dal creatore.
Verità e carità nella fede della Chiesa non sono realtà discordi e contrapposte ma elementi distinti e inseparabili di un ossimoro teologale che vede nella generazione del Figlio e nella processione dello Spirito i terminali dell'autorivelarsi luminoso di Dio e il dono di grazia riversato come amore nel cuore del credente (Rm 5,5). Una corretta visione trinitaria preserva la gratuità del libero e nascosto agire di Dio, permettendo di coniugare, per mezzo dello Spirito, l'irrinunciabile santità della trascendenza divina con la scandalosa storicità dell'immanenza del Verbo. Giustamente perciò è stato osservato che la verità della fede, se è disgiunta dalla carità, è solo Legge che accusa e condanna, così come la carità, se è separata dalla verità, è solo menzogna che illude e inganna. Come uscire da questo improvvido stato d'impasse? La soluzione non può essere trovata abbarbicandosi a un legalismo che per rispettare la lettera della Legge sacrifica l'uomo; e nemmeno rincorrendo il mondo con le sue intemperanze morali o venendo a patti con le sue tendenze ideologiche. Davanti a fatti o eventi che sorpassano il comune sentire del credente, il cristiano, come Maria, deve rimanere saldamente ancorato all'ascolto e alla custodia della Parola (Lc 2, 19b. 51). Deve orientarsi ad aspettare i tempi e i luoghi predisposti dalla sapienza divina per un discernimento provvidenziale che di sicuro sarà dato, se è vero che «tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia» (2Tm 3,16). Se questa fedeltà al primato della Scrittura è la via maestra consegnataci dai Padri, perché allora non cominciare proprio dalla Parola per comprendere, secondo le Scritture, come interpretare il tempo di crisi della famiglia in cui viviamo? Scrutando i testi rivelati, proprio la Scrittura ci ricorda che, sul piano euristico, davanti alle disavventure della storia e alle vicissitudini degli uomini, l'onestà intellettuale praticata dai sapienti scribi d'Israele ci ricorda che «non si deve domandare: "Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?", perché una tale domanda non è ispirata da saggezza» (Qo 7,10). Infatti, la famiglia è raccontata come una realtà sconvolta dalla trasgressione fin dal principio, se è vero che la coppia voluta da Dio a sua immagine e somiglianza si macchia del peccato d'incredulità nella sapienza della parola divina che porterà puntuale il suo frutto di morte nella fraternità negata da Caino che arriva a uccidere suo fratello. La famiglia primigenia, intrisa di colpa e di sangue, non è già segnata al suo sorgere da una ferita mortale? E il matrimonio del nostro padre Abramo con Sara è forse un esempio irreprensibile di esemplarità morale, per non citare la contorta vicenda coniugale di Giacobbe e dei suoi figli o le traversie familiari di tante unioni di uomini e donne, ricordati ad exemplum da Matteo nella genealogia messianica di Gesù (1,1-11)? La benedizione divina sulla coppia è però più forte del peccato e l'immagine divina dell'uomo, per quanto deturpata non può essere annullata o eliminata. È quindi buona norma ermeneutica non accentuare oltre misura l'attuale stato di sofferenza e di difficoltà di molte coppie, perché la ferita della famiglia non è congiunturale ma strutturale, perché è realtà antica e persistente.
Per l'insorgere fraudolento della zizzania nel campo di Dio, non si deve dimenticare il buon grano da Lui seminato nel mondo (Mt 13,24-30 e 36-43), anche se i discepoli in ogni tempo sembrano più impressionati dall'apparire del loglio che dalla crescita del frumento. D'altra parte anche nel racconto delle nozze di Cana si accenna alla lacunosa condizione del matrimonio; una corretta traduzione fa dire a Maria, la donna-madre, che gli sposi, nel pieno della festa, «non hanno vino» (Gv 2,3). La risposta di Gesù e la garbata determinazione della madre ci fanno comprendere che l'episodio è narrato, come in sottofondo e alla maniera giovannea, non come disavventura di uno sfortunato ricevimento nuziale ma come prefigurazione di ogni sposalizio: nella festa del matrimonio è già venuto a mancare e ancora penosamente potrà venire a mancare il vino che rallegra l'esistere gioioso delle unioni coniugali. Maria, non può anticipare l'ora della gloria, l'ora delle nozze escatologiche ma, accogliendo le condizioni ancora sconosciute della nuova e definitiva Alleanza, dispone i diaconi/servitori a fare qualunque cosa Egli, il Figlio, dirà loro. Provoca così il primo dei segni che vede nel simbolo dell'acqua che diventa vino l'inizio del passaggio dall'Antica alla nuova Alleanza. Come precisa l'antico manoscritto Sinaitico («non c'era più vino, perché il vino delle nozze era esaurito») e come hanno capito i padri e gli antichi maestri, l'evento dell'acqua delle sei giare di pietra tramutata in vino ha una sua precisa relazione anche con la condizione storica del matrimonio.
L'azione santificatrice dello Spirito Santo avrebbe portato le nozze naturali dell'acqua della creazione alla superiore dignità di sacramento, com'è attestato dal maestro di tavola che giudica eccellente la qualità del vino nuovo appena assaggiato. La simbolica del racconto giovanneo invita così a cogliere un principio di continuità nella discontinuità del vino prodotto dall'acqua della purificazione delle istituzioni cultuali d'Israele: Gesù, infatti, «non ha voluto produrre il vino dal nulla (ex nihilo), ma dall'acqua per dimostrare che non intendeva dare una dottrina interamente nuova, né rigettare l'antica, ma darle compimento. Ciò che l'antica Legge raffigurava e prometteva, il Cristo lo rese chiaro e lo rivelò» (s. Tommaso, Super Evangelium S. Joannis lectura, II, 7 n. 358).
Senza ingrandire oltre misura il valore simbolico che il racconto di Cana può avere riguardo al matrimonio, si può dire che la chiesa, come Maria con la sua fiducia, e come gli inservienti/diaconi con la loro obbedienza attiva, gli unici a sapere dell'accaduto, hanno la possibilità di cooperare a conservare nel matrimonio il vino buono sino al presente. Il fatto che il vino è il prodotto della congiunzione della parola di Gesù con l'acqua della creazione versata nelle giare dell'osservanza giudaica è segno che il matrimonio naturale, in forza della parola di Cristo, può divenire il vino buono del matrimonio sacramentale. Manifestazione di una gloria che, ieri come oggi, solo i discepoli che accompagnano Cristo sono in grado di vedere, credendo ancora in Lui (Gv 2, 11). È proponibile ai diaconi e alle famiglie cristiane del nostro tempo questa lettura delle Scritture per curare le famiglie ferite o è solo un'interpretazione accomodante e ingenua, inadeguata a fronteggiare il dilagare di una malizia crescente che non ha ritegno a sconvolgere e profanare matrimonio e famiglia?
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