Don Tonino Bello - Omelie per le Ordinazioni dei Diaconi permanenti



Don Tonino Bello
Omelie per le Ordinazioni dei Diaconi permanenti


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27.09.1989 – Lettera a Sergio Loiacono, primo diacono permanente della diocesi di Molfetta, ordinato il 4 ottobre 1989

05/01/1993 – Omelia per l'ordinazione diaconale di Mario D'Elia e Felice Marinelli


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27.09.1989 (torna su)
Lettera a Sergio Loiacono, primo diacono permanente della diocesi di Molfetta, ordinato il 4 ottobre 1989

Carissimo Sergio,
te l'ho detto a voce, ma voglio ripetermi. Tecnicamente, l'appellativo diacono permanente si dà a colui che, una volta salito sul primo dei gradini dell'ordine sacro, il diaconato appunto, si ferma in modo stabile lì, senza la prospettiva di ascendere, in seguito, agli altri due livelli: del presbiterato, cioè, e dell'episcopato.
La spiegazione non mi piace. Mi sa malinconicamente di negativo. Mi dà troppo il sapore di binario morto. Allude in modo molto scoperto ai galloni di quei soldati scelti che, non dovendo fare carriera, rimangono appuntati per tutta la vita.
Sembra, insomma, più il traguardo ultimo che recide le illusioni dell'«oltre», che lo «status» di chi annuncia con gioia che tutta la vita deve essere messa al servizio di Dio e dei fratelli.
Ti voglio dire, allora, qual è la disposizione d'animo con la quale tra giorni ti imporrò le mani sul capo.
Vedi, Sergio, desidero che tu sia per la nostra Chiesa locale il segno luminoso della sua diaconia permanente. L'icona del suo radicale rifiuto per ogni mentalità da «part-time». Il simbolo dell'antiprovvisorietà del suo servizio. Il richiamo contro tutte le tentazioni di interpretare con moduli di dopolavoro l'impegno per i poveri. La negazione di ogni precariato che voglia includere, non solo nella diaconia della carità, ma anche in quella della Parola e della lode liturgica, la banalità aziendale del «turn-over».
Auguri, Sergio.
I laici, vedendoti, si sentano messi in crisi per l'incapacità di dare al loro servizio ecclesiale lo spessore del tempo pieno e, forse, neppure quello del tempo prolungato.
I religiosi ti sperimentino come provocazione alla totalità di una scelta, che è permanente non tanto perché impedita di far passi in avanti quanto perché esorcizzata dal pericolo di far passi all'indietro, con quelle quotidiane ritrattazioni di fedeltà che a poco a poco si rimangiano la bellezza del dono.
I presbiteri ti accompagnino per leggere nella tua vita il filo rosso che deve attraversare tutto l'arco della loro esperienza sacerdotale: la completezza dell'offertorio, la stabilità della consacrazione, il servizio della comunione.
E anche il tuo vescovo, invocando lo Spirito su di te, comprenda che il diaconato permanente, se è il gradino più basso nella gerarchia dell'ordine sacro, è, però, la soglia più alta che l'avvicina a Cristo, «diacono di Jahvè».
Dai, Sergio.
Con me ti benedice tutto il popolo di Dio.
+ Don Tonino, vescovo

(Dal settimanale Luce e Vita della diocesi di Molfetta, A Sergio Loiacono: nella nostra diocesi, primo diacono permanente)


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05/01/1993 (torna su)
Omelia per l'ordinazione diaconale di Mario D'Elia e Felice Marinelli

Il conferimento del diaconato a Mario e Felice s'incornicia nella festa della Epifania, la festa della luce, la festa dell'universalità, dell'apertura. L'augurio che vorrei fare ai nuovi diaconi è che siano testimoni di questa cattolicità della Chiesa. Cattolicità significa universalità: che la possano presentare con le loro parole e con la loro vita; possano presentare la Chiesa non come un'istituzione fredda, che segna lo spartiacque dove andare, dove uno deve incunearsi. No, la presentino, più che come una struttura rigida, come una madre che va incontro alla gente, che va incontro ai figli e tutti sono figli della Chiesa, non soltanto i cattolici, non soltanto quelli che frequentano la messa tutte le domeniche: sono figli della Chiesa tutti gli uomini.
E allora, vorrei tanto che Felice e Mario fossero davvero com'erano i primi cristiani: uomini di frontiera, uomini di cerniera, che stanno sullo spartiacque che divide l'area dei credenti, di coloro che vogliono bene a Gesù Cristo, che si affidano a Lui dall'area di coloro invece che non avvertono questa struggente nostalgia di Gesù Cristo. Ecco, proprio su questo crinale, loro si devono collocare: uomini di frontiera, uomini dello spartiacque, uomini tolleranti, perché qualche volta nella Chiesa soffriamo di intolleranza: se uno non fa così è condannato; se uno non segue pedissequamente alcune annotazioni, è scomunicato, fuori della comunione...
Possano essere uomini di frontiera, ho detto, e uomini tolleranti, capaci di capire il diverso, l'altro, e capaci anche di accogliere la diversità, l'alterità, che non si imprigionino cioè nei loro schemi. Hanno studiato teologia per quattro anni; è molto facile, però, che lo studio della teologia diventi una cintura di sicurezza in cui ognuno si trincera e va avanti così, con gli schemi soliti, senza sussulti, senza brividi. Il mondo ha bisogno di brividi, oggi, ha bisogno di sussulti. Quante volte sento la gente che dice: "Ma perché in Chiesa siete così ripetitivi, così stanchi, dite sempre le stesse cose, fate gli stessi gesti?". Non c'è cambio, non c'è invenzione. Forse è vero: abbiamo privilegiato troppo il diritto e abbiamo mortificato un tantino la fantasia, l'estro; la capacità di lodare il Signore con novità di vita.
Dico questo perché mi dispiacerebbe tanto che i nuovi diaconi diventassero i titolari della routine, dello schema prefabbricato; che diventassero, soltanto, come dire, i propositori di servizi al parroco presso cui vengono affidati. Se la loro missione si dovesse restringere ad accompagnare i morti al cimitero o a fare i battesimi quando il parroco è occupato, oppure a celebrare determinate funzioni quando il parroco non c'è - se dovesse essere questo - sarebbe sbagliato: meglio non ordinarli. I diaconi devono essere portatori di novità, di freschezza, ma di freschezza dolce, non arrogante. Guardatevi dall'arroganza, dal proporvi ai vostri parroci come maestri o come coloro che la sanno più lunga, o come coloro che sono più freschi di teologia e quindi possono dottrineggiare su tante cose.
Tutt'uno con il parroco, quasi una simbiosi, in modo tale che non solo il parroco riceva l'aiuto in tutte queste mansioni che ho ricordato, ma possa ricevere soprattutto un alimento culturale, confrontandosi con voi con franchezza, ma con modestia, senza arroganza, senza presunzione. Vedete: allora la Chiesa crescerà; crescerà soprattutto perché coloro che noi chiamiamo "i lontani", scorgono una simpatia nuova all'interno delle nostre comunità. Possono dire: "Guarda, non è una comunità chiusa, non è una comunità che si arrocca nelle sue cerimonie per quanto belle, per quanto sante, ma è una comunità aperta, che s'inventa giorno per giorno; una comunità che vive l'immediatezza della presenza di Dio in termini nuovi". Oggi non è più come ieri.
Agli altri, di questo dovete essere propositori, come fu propositore di questa istanza santo Stefano. Lo mandarono a morte perché si era sbilanciato un po' troppo. Aveva parlato di Gesù Cristo in termini che urtavano la sensibilità dei farisei che l'avevano mandato a morte, per cui non lo potevano tollerare pur sapendo che aveva ragione; non lo potevano tollerare, e allora l'hanno mandato a morte. Però questo ci dice che santo Stefano era pieno di Spirito Santo. Essere pieno di Spirito Santo significa essere pieno di novità di vita, essere pieno di solidarietà con la gente.
La festa dell'Epifania ci ricorda, in fondo, questa realtà dei Magi, degli studiosi, degli scienziati che venivano da nazioni diverse per ritrovarsi nel cercare insieme Gesù di Nazareth, le cui coordinate avevano intravisto nei loro studi. E sono andati avanti così, e si sono prostrati davanti a Lui; pur non essendo credenti, lo hanno adorato. È la festa dell'universalità, è la festa della cattolicità, è la festa anche dell'audacia, perché questi Magi furono audaci. Dopo aver attraversato tanti pericoli della corte di Erode, hanno continuato per i fatti loro, hanno ritrovato la stella e hanno ritrovato anche Gesù di Nazareth. Ecco che questa ordinazione si colloca in un clima di universalità, di tolleranza, di accoglienza. Date questa immagine, vi prego, vorrei dirlo anche a tutti i sacerdoti.
La gente tante volte ti ferma e dice: "Ti voglio bene perché non sei prepotente, non imponi la verità, ma la proponi soltanto, con molta discrezione e con molta fatica e con molti dubbi, anche perché credere è faticoso, comporta dei dubbi". Questa immagine dolcissima di Chiesa dovete presentare. La gente ha bisogno di questo, oggi. Non ha bisogno delle nostre certezze assolute per cui condanniamo o assolviamo sulla base dei nostri codici che non sempre coincidono con i codici di Dio. Pretendiamo che gli altri entrino nei canali organizzati da noi, siano pure canali di grazia; invece lo Spirito Santo, sapete, soffia dappertutto, e fa delle cose anche che sembrano irrazionali, per cui tu metti il seme in una pianta e il fiore cresce in un altro vaso. Così fa il Signore: non è afferrabile. Ci afferra, ma non è afferrabile.
Allora non siate arroganti quando presentate Dio. Non rimandate a bocca asciutta i testardi, che non vogliono capire la dolcezza della sequela di Cristo. Rincorrete la gente, andate a trovarla nei loro domicili, nelle loro case, dove probabilmente vive momenti di solitudine, di tristezza, di dolore, e accanto non c'è nessuno che dia loro una mano d'aiuto. Intuite, prima che gli altri ve lo dicano, i bisogni, della gente. Andate incontro alle necessità dei poveri. Scoprite il Signore che vi ha dato occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei poveri, perché se noi ci lasciamo valutare dalle nostre comunità, possiamo sentirci anche gratificati, in quanto c'è tanta gente che ci vuole bene, e siamo nel nostro gruppo, ci sentiamo anche realizzati, sì, ma non è questo il vostro compito.
Io ancora non vi do una destinazione particolare; lo farò in questi giorni dopo che insieme con don Tommaso, il vicario generale, avrò riflettuto su quale missione specifica dirottare i vostri impegni. Però, mi auguro che la gente, quando viene a trovarmi in episcopio possa dire: "Grazie, Vescovo, perché ci hai mandato Mario; grazie, Vescovo, perché ci hai mandato Felice. Siamo così contenti perché è uno di noi, ci capisce, ci comprende al volo e ci sa parlare di Gesù Cristo con una grande forza interiore, con grande slancio, e noi Gesù lo sentiamo più vicino proprio perché ci sono loro".
Capite che tutto questo comporta, comunque, una grande vigilanza sulla vostra vita: la fuga continua, la lotta continua al peccato, l'impegno per seguire generosamente Gesù Cristo in tutte le norme del vangelo senza piegarle a interpretazioni di comodo. Tanti auguri perché anche le vostre signore, le vostre consorti, vi diano una mano in questo compito. Siano generose quando, dovendo trascorrere un po' di tempo in casa, rinunceranno perché voi dovrete andare a prestare il vostro servizio alla comunità. Questo sacrificio che voi fate al Signore, sarà benedetto da Dio e non abbiate paura, perché il Signore non toglie mai senza aggiungere il doppio di quello che ha sottratto. Santo Stefano, san Lorenzo, san Vincenzo questi diaconi celebri della prima comunità cristiana, vi siano accanto e vi assistano con la loro implorazione.
+ don Tonino Bello, vescovo.

(In testo è reperibile nel volume pubblicato per il ventennale della sua ordinazione diaconale da Mario D'Elia, Diaconi. L'uomo, la vita, il ministero nella Scrittura, Ed. Insieme, Terlizzi 2012,103-109. Il diacono D'Elia è anche autore del volume: Diaconi, dono di Dio all'umanità. Genesi, decadimento, ripristino, Ed. Insieme, Terlizzi 2014).



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