L'immagine del Figlio dell'uomo come descritto dal profeta Daniele colpisce la fantasia del lettore, che spontaneamente si sorprende a rappresentarsi la visione che è riportata qui solo per una parte. Dopo aver visto quattro bestie, ora il veggente vede un uomo; infatti figlio dell'uomo e uomo sono termini equivalenti. I commentatori suggeriscono di leggere questa visione tenendo come punto di riferimento il Salmo 8, che canta la fragilità e la straordinaria grandezza dell'uomo. Questo uomo è descritto da Daniele per la sua dignità, che lo rende segno di Dio, un ministro plenipotenziario, descritto come un imperatore (Nabucodonosor) con un potere superiore a quello di tutti gli imperatori, perché eterno e con un regno e caratteristica che nessun regno può vantare, l'indistruttibilità. VITA PASTORALE N. 9/2015
Solennità di Cristo Re (XXXIV Domenica del T.O.)
Dn 7,13-14
Ap 1,5-8
Gv 18,33b-37
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NELLA NOSTRA STORIA
Non bisogna essere dei teologi per identificare questo figlio dell'uomo con Cristo. Ma c'è in queste parole un' esaltazione della condizione umana che bisogna sottolineare; si sottolinea, infatti, la natura umana di questo personaggio che riceve tutto questo onore e questa potenza. Con lui si avvicina a Dio tutta l'umanità, in lui è presentato a Dio ogni uomo. Unito a Cristo ogni uomo è capace d'essere segno di Dio nella creazione; è questa la regalità di ogni battezzato: essere segno di Dio nel mondo, condurre a Dio la creazione, impegnarsi a diminuire, per quanto può, ogni elemento di anti creazione. La visione del Figlio dell'uomo ricorda ad ogni uomo la sua dignità e responsabilità.
L'Apocalisse di Giovanni presenta un dialogo liturgico. Si presenta Cristo chiamandolo testimone fedele, cioè come colui che non contraddice le promesse di Dio ma le realizza fedelmente diventando solidale con gli uomini, fino a condividere con loro la morte e impegnandosi a sconfiggere i re della terra, cioè tutti i condizionamenti, i poteri e le paure che non rendono facile il cammino per realizzare la propria dignità di uomini.
L'assemblea liturgica riconosce questa azione di Cristo e risponde con una preghiera di lode che si rivolge a Cristo come a colui che li ama e che ha dimostrato il suo amore per loro non solo liberandoli dal peccato, ma anche dando loro la potestà regale, che si esercita nella capacità di fare da ponte fra gli uomini e Dio (un regno di sacerdoti). Il brano si chiude con l'Amen, che introduce la considerazione che questa regalità si esercita nella storia presente e futura, cioè è una regalità dinamica. Finalmente Cristo prende la parola che conferma di essere lui a riassumere la storia dell'uomo.
Continuando la riflessione sulla regalità introdotta dalla lettura di Daniele, l'Apocalisse aiuta a capire che essa consiste nell'impegno ad essere ponti fra Dio e gli uomini, ma anche a rendersi conto che questa regalità non si esercita a titolo personale, ma nell'assemblea, descritta nel suo momento più alto, quello liturgico. Termini come regalità e sacerdozio hanno senso solo in chiave di relazione: non si può immaginare un re senza regno e molto meno un sacerdote senza comunità. Spesso si parla di poca incisività della comunità cristiana, denunciando proprio un deficit di regalità, una coscienza non troppo chiara di questa vocazione a cambiare il mondo.
Il vangelo di Giovanni riporta il dialogo fra Gesù e Pilato a proposito della regalità. Pilato tratta Gesù come un capopopolo e vuole solo che dichiari qualcosa di compromettente. Gesù risponde avvisandolo che lui è solo strumento del potere di altri, ottenendo solo una risposta sbrigativa, ma anche l'ammissione che i sacerdoti glielo hanno consegnato e voleva sapere il motivo. Gesù elimina ogni equivoco, facendo notare come non ci siano state sommosse alla sua cattura e dunque la sua regalità non dovrebbe preoccupare Pilato, ma piuttosto spingerlo a domandarsi di che potere parli Gesù. Pilato non si fa domande, vuole solo un'ammissione di colpevolezza.
Gesù risponde affermando la sua regalità e dice a Pilato che essa consiste nel dare testimonianza alla verità, gli riassume la sua missione, quella di essere segno di Dio nella storia degli uomini, di tutti, anche di Pilato. Pilato se avesse un po' di desiderio di Dio, se non si accontentasse di essere solo un burattino nelle mani dei sacerdoti e dell'imperatore, ascolterebbe Gesù.
Di questa pagina di vangelo possono essere dette molte e importanti cose; la celebrazione in cui è inserita chiede di leggerlo soprattutto nella prospettiva della regalità. I commentatori notano come una delle frasi più problematiche sia quella che riferisce le parole di Gesù, che dichiara che il suo regno non è di quaggiù. Agostino fa notare che questo non significa che il regno di Gesù non ha niente a che fare con la vita del mondo, ma solo che l'origine del potere di Cristo non viene da dinamiche umane di potere. Questo può aprire a due riflessioni, la prima è che far parte di questo regno non consente costruzioni di mondi sulle nuvole, senza nessun senso della realtà, chi regna trasforma, chi governa si prende delle responsabilità. La seconda considerazione è che se l'origine del potere di Gesù non è di quaggiù, significa che nemmeno quaggiù qualcuno ha il potere di mettervi fine. La caratteristica dell'eternità del suo potere regale e dell'indistruttibilità del suo regno dovrebbe aiutare a riflettere un po' di più quando si fa una lettura della realtà cristiana attingendo alla letteratura del declino.
(commento di Luigi Vari, biblista)
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Solennità di Cristo Re (XXXIV Domenica del T.O. - B)
ANNO B - 22 novembre 2015
CRISTO, SEGNO DI DIO