Le parole del profeta Isaia, che si leggono questa domenica, sono quelle conclusive del quarto canto del servo, che segue il destino di questo personaggio fino alla sepoltura. Quando tutto è finito, si sente come un coro di persone che riflettono sul destino del servo e prendono coscienza che tutto quello che ha fatto è stato fatto in obbedienza alla volontà del Signore. Il servo, che ha messo la sua vita nelle mani di Dio, fino alla tomba si ritrova al centro della vita perché lui stesso vive; si parla, infatti, di discendenza e di luce, realtà opposte alla tomba; c'è anche qualcosa di più, la sua vita è come aumentata perché produce vita per molti. VITA PASTORALE N. 8/2015
XXIX Domenica del Tempo ordinario
Is 53,10-11
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45
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È GRANDE CHI SERVE
La domanda, che quasi tutti si fanno davanti al dolore e lo aumenta, è sul suo perché. L'inutilità del dolore è quanto di più mette in questione Dio. Il dolore è il segno dell'ingiustizia, intesa come atteggiamento opposto a quello del giusto, che è tale perché, come dice il Salmo 1, affonda le sue radici in Dio e non pensa di bastare a sé stesso. Nel servo si impara che una via d'uscita è quella di cercare di non perdere Dio; come l'albero che, lontano dal corso d'acqua, la desidera e si sforza di raggiungerla. Fare la volontà di Dio non è tanto il soffrire, ma cercare il modo di restar fecondi, di vedere la luce, di dare utilità alla propria esperienza. Un cristiano non deve inventarsi il cammino, sa che può mettersi sulle orme di Cristo.
È proprio di Gesù, che parla la lettera agli Ebrei. La lettera lo definisce sommo sacerdote. Come il sommo sacerdote entra nel tempio, così Gesù è entrato nel cielo. Sono temi che la lettera svilupperà a lungo, ma basti ricordare che il segno dei cieli aperti serve a dire che c'è una creazione nuova, un nuovo popolo. In più mentre il sommo sacerdote entrava da solo nel tempio, i discepoli di Gesù si uniscono a lui, perché i cieli si aprono per tutti. Ci si può fidare di Gesù, afferma l'autore della lettera, perché è un uomo che ha conosciuto il dolore e ha provato la tentazione, cioè ha sentito il peso della prova, che mette in discussione Dio. Ci si può fidare di accostarsi a Cristo con la sicurezza del suo aiuto.
Raccontare a Gesù le proprie ferite, quelle della vita, che nascono da esperienze diverse, anche belle molte volte. Rifiutare di rivolgersi a lui pensando che, in fondo, lui non può capire; forse può sapere perché conosce tutto, ma non può capire. Gesù, il Figlio di Dio, invece, capisce le ferite perché sono le sue. Non deve essere informato sulla fatica di voler bene o di quanto faccia male una delusione o un tradimento; non c'è bisogno che qualcuno gli faccia capire che cosa si sente di fronte al dolore e alla morte. Per questo, dice l'autore della lettera, per la comunione di vita, perché si riconoscono i segni e le ferite, ci si può fidare ed essere sicuri che ascolta e aiuta. Quando si parla di Gesù, si dà molta importanza ai concetti, si sta attenti a dire le cose giuste; questa lettura suggerisce che se ne può parlare anche come uno che ti capisce, che ti aiuta.
Il testo tratto dal vangelo di Marco racconta della richiesta di Giacomo e Giovanni di stare alla destra e alla sinistra di Gesù, quando sarà nella gloria. Stare al seggio di destra e a quello di sinistra significa ricoprire i due posti d'onore accanto al giudice. Nel giudizio, cioè, potranno sedere tra i giudici e nel posto d'onore? La risposta di Gesù non suona come un rimprovero, ma come un richiamo a comprendere bene quello che stanno chiedendo. Gesù chiarisce che la comunione alla gloria passa attraverso la comunione al calice e al battesimo, dove calice e battesimo sono evidenti nel loro significato per i due discepoli. Il calice, nella letteratura biblica, è quello della morte e il battesimo è l'onda del male che rischia di travolgere il giusto. Gesù parla loro, in poche parole, della croce. La risposta sicura dei due fa pensare che questo brano sia stato scritto quando già Giacomo e Giovanni avevano dato prova della loro disponibilità alla testimonianza e al martirio.
Ci sono poi le parole con le quali Gesù dice che, comunque, la risposta alla richiesta dei due non dipende da lui. Risposta che va compresa, nel contesto della comunità cristiana, come un rifiuto a dare senso alla domanda. Fra quelli che sono di Cristo, la posizione non è un problema. La reazione dei dieci mostra come il problema ci sia: ci si trova di fronte a un apoftegma, che fissa il principio che è grande chi serve, è primo chi sta per ultimo come uno schiavo. A chi ha dubbi su questa nuova teoria del posizionamento, Gesù mostra sé stesso, applicando a sé le parole del quarto canto del Servo, che sono state lette nella prima lettura.
Spesso si sente la domanda, posta in modo provocatorio, magari per introdurre una difesa per l'una o l'altra categoria della Chiesa, su quanto qualcuno o una categoria conti. Quanto contano i laici? E le persone consacrate? E i preti? Le domande sono di tipo retorico, perché aspettano la risposta negativa. Se poi questa domanda uno la fa a sé stesso e si chiede quale sia la sua posizione nella comunità, quanta la sua influenza, allora gli effetti sono devastanti, perché quasi tutti pensano che il loro parere dovrebbe contare di più e meriterebbe migliore considerazione. Alcuni, almeno a sentire il Papa, fanno della ricerca di posizione, un'ossessione. Per altri, come per gli altri dieci, il problema c'è. Il cento per cento pensa che la posizione sia un tema importante.
(commento di Luigi Vari, biblista)
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XXIX Domenica del Tempo ordinario (B)
ANNO B – 18 ottobre 2015
NEL REGNO DI DIO