SS. Corpo e Sangue di Cristo (B)


ANNO B - 7 giugno 2015
SS. Corpo e Sangue di Cristo

Es 24,3-8
Eb 9,11-15
Mc 14,12-16.22-26
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L'EUCARISTIA, IL CIBO
DELL'IMMORTALITÀ

Il libro dell'Esodo presenta un rituale di alleanza, di cui colpisce l'elemento sacrificale, che si lega alla tradizione diffusa in ogni cultura di festeggiare con un banchetto la ratifica di un patto. Essendo assente uno dei contraenti, Dio, lo si fa partecipare al banchetto sacrificando un animale. Il sangue, nei catini e sull'altare, è il segno della vita. L'impegno che si prende coinvolge la vita dei contraenti. Fa parte del rituale del patto anche la scrittura delle parole. C'è quindi la lettura ad alta voce di quanto è stato scritto, del libro dell'alleanza, e l'impegno solenne. Si deve notare, però, oltre la descrizione del rito, una sequenza di verbi particolare, che qualche commentatore segnala; si tratta dei verbi ascoltare e fare, che appare due volte nel brano, la prima in sequenza normale, ascoltare e fare; la seconda, invece, vede prima il verbo fare e poi ascoltare. Si capisce questa inversione, se si ricorda che parola e fatto non sono realtà separate, ma si confondono. La parola, nella mentalità biblica, non si limita a designare, ma crea, fa.
Non c'è posto, nel cammino che si fa con Dio, per impegni che durano un poco o che riguardano solo una parte della persona; è tutta la vita a essere coinvolta, ed è la vita la ricompensa, come si mostra quando Mosè asperge il popolo con il sangue. Non c'è posto per parole che facciano da colonna sonora per sottolineare qualche momento della vita, ma solo per vite che diano concretezza alle parole. L'eucaristia che oggi è al centro dell'adorazione e dell'amore, non conosce se non parole concrete e vita realmente condivisa, donata e ricevuta. Una riflessione sul culto ebraico sostiene il ragionamento dell'autore della lettera agli ebrei, che dispone, come in una sinossi, il sacrificio della legge antica e quello di Cristo, mostrando come quest'ultimo realizza quanto prima era solo desiderio e simbolo.

Non è possibile esaminare la ricchezza di queste righe, ma si può fare attenzione all'insistenza sul sangue di Cristo, cioè sulla sua vita. Cristo mette in gioco sé stesso e ottiene quanto nessun sacrificio può ottenere, cioè la purificazione dal peccato, la liberazione dalla morte. L'efficacia del sangue di Cristo e il carattere definitivo della sua offerta, sono gli elementi centrali di questo brano. Vi sono molte riflessioni, che sottolineano come l'eucaristia sia veramente il cibo che fa passare dal desiderio della vita alla vita stessa. Si parla di essa come di una medicina, che realmente libera il cuore dal condizionamento del peccato. Si parla di essa come di un cibo d'immortalità, che libera dalla morte e da quella che san Francesco indica come la seconda morte.
Nelle parole della lettera agli Ebrei c'è il desiderio di suscitare in chi legge un sentimento di stupita gratitudine, al pensiero che Cristo mette in gioco sé stesso perché l'uomo non viva la frustrazione di non poter realizzare quello che desidera profondamente. Nello stesso tempo l'eucaristia è una scuola per ognuno, perché mostra come il passaggio dalle parole alla realtà sia possibile solo mettendo in gioco sé stessi. Nella cultura dove tutti sono capaci di denunciare, la cultura eucaristica indica una strada diversa, che passa attraverso il dono di sé.
Colpisce nella lettura del brano del vangelo di Marco, l'accurata preparazione della cena, la meticolosa attenzione ai particolari. C'è un dialogo attorno al luogo della cena e l'invio del maestro, espresso con un impegnativo apostellein, verbo che ha a che fare con la missione, per cui la frase «allora mandò due discepoli», dice di più che affidare una commissione. Gesù è in prima persona impegnato in quella cena, che ha a che fare con la sua missione. Colpisce l'accuratezza, l'indicazione del tempo e dello spazio. Tutti pensano che questo brano, soprattutto per le parole della cena, sia liturgico e rispecchi un modo ormai familiare di una celebrazione, che i cristiani facevano nelle case. Restando sulla linea del tempo, si vede che oltre un tempo preciso: il primo giorno degli azzimi; la preparazione della cena; la cena stessa in cui sono collocabili le parole sul pane e sul vino; il canto dell'inno alla fine della stessa cena e l'uscita verso il monte degli ulivi quando il rituale della pasqua ebraica si era ormai esaurito, c'è pure un altro tempo.

Nelle parole di benedizione del vino, Gesù apre a un tempo che durerà fino a quando di nuovo berrà con i suoi un vino nuovo. Gesù non mangerà e non berrà più con i suoi discepoli, li proietta, però a un tempo quando questo accadrà di nuovo, cioè alla fine del tempo, nel banchetto messianico. Il tempo che si apre è un tempo di progressivo avvicinamento a quel tempo, un tempo di trasfigurazione,che dura quanto dura la storia. La celebrazione eucaristica, la cena del Signore, vede riuniti i discepoli, che non solo ricordano le parole e i gesti di Gesù in quell'ultima sera, e lo fanno con cura, perché sentono che fa parte della loro missione mantenere intatta la memoria della cena e celebrarla senza trascurare e cambiare niente.
Il desiderio di non profanare la memoria giustifica che le parole della cena sono fra le prime a essere fissate e come non mostrino differenze sostanziali nelle diverse redazioni. Non profanare la cena è, però, anche conservare la sua dinamicità. I discepoli apprendono quella sera che le cose si trasfigurano, che il pane e il vino sono il corpo e il sangue di Cristo; dalle parole di Gesù apprendono anche che la storia si trasfigura, che c'è un'altra storia.

VITA PASTORALE N. 5/2015
(commento di Luigi Vari, biblista)

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