S.S. Corpo e Sangue di Cristo (A)

ANNO A - 22 giugno 2014
S.S. Corpo e Sangue di Cristo

Dt 8,2-3.14b-16a
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58
NUTRIRSI DI CRISTO
PER RIMANERE IN LUI

Celebrazione di origine devozionale, che affonda le sue radici nella bolla Transiturus di Urbano IV (1264) e ha al suo centro il culto all'eucaristia, capitolo tipicamente cattolico, fondato teologicamente dal concilio di Trento (cf sessione XIII, cap. V). Non mancano neppure oggi, infatti, o in questa domenica o in prossimità di essa, adorazioni prolungate, processioni, ecc. Nessuna sovrapposizione, come qualcuno scrive, al Giovedì santo, perché in tale circostanza ci si pone dal versante dell'istituzione dell'eucaristia, cioè della sua consegna alla Chiesa come sacramento della presenza di Cristo e come convito nuziale del suo amore per noi.
L'adorazione viene però contestualizzata dalla Parola, che si concentra sul celebre testo di Giovanni, che motiva ampiamente il gesto adorante delle comunità cristiane in tale giorno, facendo emergere anzitutto la grandezza dell'eucaristia, quale cibo nel pellegrinaggio terreno e garanzia della vita senza fine. Non per nulla il brano odierno figurava nel Messale tridentino come vangelo della "messa quotidiana" dei defunti (solo i vv. 51-55): era uno dei testi più utilizzati nella prassi liturgica prima della riforma del Vaticano II, per la promessa in esso contenuta: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (v. 54).

A fondamento sta appunto la necessità di mangiare e di bere, cioè di nutrirsi di Cristo, che i Giudei interpretano in senso fisico, discutendo tra loro come uno possa diventare cibo per gli altri. La risposta di Gesù sottolinea questo bisogno, additandolo come condizione irrinunciabile per vivere, così come è il cibarsi umano, ma ponendosi nettamente sul piano sacramentale. Tant'è che il verbo che in questo brano viene utilizzato non è quello del mangiare comune, ma un altro (trògo), che esprime il masticare, cioè la frantumazione del cibo per l'assimilazione. Qui si può riscontrare il valore dell'adorazione, non di un oggetto sacro, ma di una persona vivente, e cioè l'assimilazione interiore di Cristo mediante la comunione sacramentale. Non c'è altra strada, perché l'eucaristia è un'esperienza di vita, condensata nella ricezione della persona globalmente intesa, e non una teoria filosofica o teologica da apprendere.
A chi viene in processione o a chi sta genuflesso in adorazione è necessario porre oggi l'interrogativo su come e quando fa la comunione, cioè "mangia" sacramentalmente Cristo, per interiorizzare la sua persona, il suo insegnamento, la grandezza e la bellezza del suo "dimorare" (tipico verbo di Giovanni) tra noi, a nostra disposizione come cibo e bevanda per essere "masticato" e bevuto.

Del resto, il brano evangelico pone tale manducazione come condizione per avere in noi la vita di Cristo, così da essere risuscitati nell'ultimo giorno. Il significato dell'espressione si precisa gradualmente nell'insegnamento di Giovanni: si tratta della vita eterna, che consiste in un rimanere reciproco, intimamente associata alla risurrezione nell'ultimo giorno. Attraverso l'assimilazione della rivelazione di Dio, resa disponibile dal corpo di Cristo, il credente giungerà a un'indicibile intimità con Gesù stesso. In tal modo l'alimento della carne e del sangue di Cristo nutre veramente. La garanzia della vita in pienezza, che in Giovanni viene comunicata nell'episodio di Lazzaro (cf Gv 11,25-26), qui trova convalida ogni volta che ci si accosta all'evento sacramentale e diventa viatico per l'eternità, non solo quando verrà fatta l'ultima comunione, appunto in forma di viatico, ma sempre, nell'indispensabile frequentazione del sacramento.

Il risultato di tale prassi, infatti, viene espressamente dichiarato ancora dal brano evangelico in questi termini: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me». Il vivere per esprime la modalità di relazionarsi nella comunità cristiana che scaturisce dall'eucaristia. Lo evidenzia l'Apostolo nella seconda lettura: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane».
Ma tale partecipazione deve possedere i connotati della verità storica, e non semplicemente del desiderio interiore (la "comunione spirituale"). E sfocia poi, all'interno del corpo ecclesiale, in tutto ciò che esprime la relazione di apertura a qualsiasi esigenza dei fratelli. Il vivere per Cristo non si chiude, infatti, in un rapporto intimistico con lui, ma spazia nel tentativo di rendersi presente nella concretezza del quotidiano. Perciò il momento adorante, nella significatività del silenzio, diventa ricerca e verifica della propria operatività personale e di quella ecclesiale a favore dei fratelli, perché si formi questo corpo di Cristo nella varietà delle membra.
L'avventura del deserto, che ha fatto capire all'antico popolo come l'uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore - lo testimonia la prima lettura -, diventa la pedagogia eucaristica per eccellenza, nel deserto di questo mondo e nella totale penuria di relazioni anche tra persone che si conoscono. Comunicare a Cristo così da "vivere per" lui e i fratelli si esplica nella convinzione che quanto esce dalla bocca di Dio, cioè la sua volontà manifestata nella Parola, è ciò che dona significato alla vita. Ci poniamo oggi in riconoscente adorazione di questo sublime sacramento.

VITA PASTORALE N. 5/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

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