Santissima Trinità (A)

ANNO A - 15 giugno 2014
Santissima Trinità

Es 34,4b-6.8-9
2Cor 13,11-13
Gv 3,16-18
L'AMORE TRINITARIO
AVVOLGE E PROTEGGE

Il rischio di questa celebrazione è quello di renderla una specie di asserto dogmatico, di sapore astratto, e non una pagina di vita, che ha nel culto il suo centro focale. Ogni celebrazione, infatti, è sempre glorificazione del Padre per mezzo di Cristo nella potenza dello Spirito. "Glorificare" è riconoscere l'importanza che Dio ha nella nostra vita, la sua essenziale e irrinunciabile funzione di "Padre", che viene prospettata fin dalla tradizione del Primo Testamento. La prima lettura, infatti, ci presenta quello che può essere chiamata la sintesi del nome di Dio, espressa dalle caratteristiche essenziali del suo agire nella storia: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà». L'eco di queste parole risuona in tutta l'antica alleanza, dove il popolo gradualmente scopre la qualità dell'amore di Dio e l'esprime attraverso immagini tenere e forti. Dio è padre, madre, sposo, amico, è gelosia bruciante e possessiva, perché è amante.
Questo Dio viene glorificato, perché in Cristo e nella sua Pasqua ha svelato pienamente tale peculiarità. Infatti, come viene rivelato nel brano evangelico: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Simile preoccupazione, fatta propria da Cristo, costituisce tuttora la chiave dell'azione pastorale della Chiesa, non tanto dal versante numerico (si sa che a tutti non si arriva...), quanto da quello del far percepire l'amore che protegge e che accompagna.
È il connotato caratteristico dell'azione divina, troppo spesso occultato o rarefatto da una molteplicità di motivazioni di altro genere, compresa quella delle minacce e delle invettive, per cercare di mantenere un legame con il divino. Gesù Cristo ci rivela un Padre misericordioso, e tale si avverte in ogni opera realizzata nel suo nome.

II culto è reso vivo e attuale dall'opera dello Spirito Santo, come già si è avuto modo di evidenziare, commentando il brano della Samaritana nella scorsa Quaresima. Ogni azione cultuale si sintonizza perfettamente con un'altra affermazione del brano evangelico odierno, che riassume la missione salvifica in Cristo: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Salvare il mondo significa per Giovanni attirarlo al Padre. Nel quarto Vangelo la rivelazione è concepita come un duplice movimento: di espansione a partire dal cuore del Padre e di raccolta verso il cuore del Padre.

Tradotto in un linguaggio più semplice, si vuole evidenziare che il "mondo" assume nel vocabolario di Giovanni questa ambivalenza di significato, per cui, da una parte, costituisce certamente una realtà ostile ai credenti («Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me»: Gv 15,18); dall'altra, come in questo passo evangelico, è oggetto dell'amore divino in funzione della salvezza attuata in Cristo.
Nel culto, allora, si rivela costantemente simile preoccupazione, che non ci fa porre mai in atteggiamento ostile, combattivo, ma sempre dialogico nei confronti degli altri. Quante volte tale prospettiva va ribadita in ambienti ecclesiali, dove, ad esempio, la passione apologetica nei confronti della Chiesa genera apertamente ostilità e contrapposizioni. Non si tratta di invocare falsi irenismi, ma di appellarci a una fede che, alla luce del Vangelo, viene chiamata a tradursi anche nell'amore dei nemici e nella preghiera per i persecutori (cf Mt 5,44).
L'azione dello Spirito si concretizza nella santificazione/trasformazione, tanto delle cose, quanto delle persone. E la prima realtà da trasformare è il cuore dell'uomo, per evitare che, diventando di pietra, non percepisca più i battiti di quello degli altri, fossero anche i più aperti osteggiatori dell'operato cristiano.

Anche all'interno della comunità tale valenza va ottemperata: nel breve brano paolino, posto come seconda lettura, questa sensazione trova netto adempimento. Primariamente nella formula d'augurio, che diventa palese promessa: «Siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace». Si potrebbero considerare questi imperativi come la condizione irrinunciabile per sperimentare la presenza di Dio. E va bene. Però propongono pure il mistero della presenza divina, che ogni celebrazione attua, come sorgente della comunione. In altri termini, nella misura in cui il Dio dell'amore e della pace sarà riconosciuto come il "cuore" della comunità e la ragione del suo esistere, si potrà conoscere la gioia vera, camminare verso la perfezione ed essere strumenti di consolazione gli uni per gli altri: un piccolo programma di vita.
Il mistero trinitario diventa così "funzionale" al contesto, che è il vivere comunitario dei discepoli. Come si può notare, non si tratta di un mero insegnamento dottrinale, ma della strutturazione più esplicita del vivere comunitario cristiano. È lì che si disvela la natura del nostro Dio, senza mezzi termini. Il suggello del saluto, espresso dal bacio santo, probabilmente un vero e proprio atto di culto, è quanto mai espressivo. Nell'antichità il bacio era un gesto consueto, come segno di saluto gioioso e di commosso commiato. Nella comunità cristiana esso ha acquistato la dignità di "bacio santo".

VITA PASTORALE N. 5/2014
(commento di Gianni Cavagnoli, docente di teologia liturgica)

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