Dall'insieme delle letture traspare un grande ottimismo ecclesiale. Ne abbiamo bisogno, in un tempo in cui troppi fatti e troppe parole ci hanno rubato la fiducia e ci hanno fatto perdere la speranza. Siamo circondati da quelli che Giovanni XXIII ha chiamato "profeti di sventura". E le loro voci coprono quelle dei veri profeti che, in nome di Dio, annunciano parole di giustizia e di misericordia. VITA PASTORALE N. 11/2012
II Domenica del Tempo ordinario
Is 62,1-5
1Cor 12,4-11
Gv 2,1-11
STA NELL'ORDINARIETÀ
Il profeta Isaia, invece, parla dell'unione di Dio con il suo popolo, della gioia e del benessere che la sua presenza e la sua protezione doneranno ai suoi eletti. Tipica dei profeti, l'immagine delle nozze indica un'intimità salvifica tra Dio e il popolo amato. E, si badi, il profeta Isaia pronuncia queste parole di consolazione proprio in un momento di grande difficoltà, in un' epoca piena di contraddizioni e di avversità, cioè durante la ricostruzione del Paese dopo l'esilio a Babilonia e il ritorno nella terra promessa.
San Paolo, d'altra parte, parla della presenza dello Spirito nella Chiesa. È lo Spirito Santo, lo Spirito del Risorto, il Consolatore che dà consistenza e riempie della sua ricchezza la comunità dei discepoli. Le manifestazioni di questo Spirito sono diverse, ma tutte sono per il bene di tutti.
Il vangelo delle nozze di Cana evoca il testo di Isaia perché rende manifesto che l'abbondanza della gioia e del benessere promessi sono già donati nel momento in cui Gesù si fa presente. Alla fine del racconto, poi, l'evangelista Giovanni ce ne fornisce le chiavi per una corretta lettura. Il miracolo di Cana rappresenta il primo di una serie di segni. Molte piste si aprono a partire da questa affermazione: Cana costituisce una sorta d'introduzione all'intera narrazione della vita di Gesù e della sua attività taumaturgica proprio in quanto primo di altri segni e c'impone così di entrare nella logica della fede, esattamente come Gesù ha imposto a coloro che lo seguivano e che lo seguiranno nelle generazioni future di entrare nella logica della fede. Al di fuori di essa, può anche essere acclamato, ma in realtà non viene capito.
Per chi conosce la Bibbia e, soprattutto, le profezie, il fatto della festa di nozze in cui il vino, prima venuto a mancare, diviene abbondante non è cronaca di un episodio, ma evocazione di un'attesa. Il Messia, e lui soltanto, renderà la vita finalmente e definitivamente come un banchetto. Non un banchetto qualsiasi, ma il banchetto dell'abbondanza, il banchetto in cui carestie e carenze di qualsiasi tipo si tramuteranno in abbondanza di cibo e di gioia. La mancanza del vino non è ascrivibile, come invece fanno i personaggi presenti alle nozze, dal maître di tavola allo sposo, a una dimenticanza e a un colpo di fortuna che ne attutisce le conseguenze. La mancanza del vino descrive con forza la situazione di un popolo di Dio che ha perso la gioia di essere popolo di Dio perché provato da troppe cose, da troppe carestie, da troppe carenze, da troppe ingiustizie: chi comanda sono i prepotenti, chi soffre sono gli umili di cuore; chi gode sono gli empi, chi fatica a vivere sono i poveri di Dio. La mancanza di vino è quindi condizione per l'attesa del Messia.
Non bisogna poi trascurare che, alla fine, qualcuno, e cioè la famiglia di Gesù e i suoi primi discepoli, non lo sposo o gli invitati che avevano assistito al miracolo e goduto dei suoi effetti, ma i discepoli credono in lui. Con quel segno che viene capito nel senso giusto, come rivelazione della gloria di Dio, inizia per Giovanni la storia della sequela. Di alcuni soltanto, perché il segno resta sempre e comunque ambiguo, soprattutto quando si tratterà dell'ultimo e più grande dei segni, la croce.
Il tema della madre di Gesù, del suo ruolo narrativo, è stato visitato in lungo e largo. Vista all'interno di tutta la narrazione giovannea, la madre presente al primo dei segni e all'ultimo, sotto la croce, cioè ai due momenti che hanno valore di "soglia" nella vicenda del Messia, ci può dire di più della valanga di parole che vengono normalmente spese per immaginare un rapporto e una condizione sulla quale, invece, gli evangelisti sanno solo tacere. A volte non si può fare a meno di domandarsi perché siamo prigionieri di una mariologia in cui la fantasia corre senza briglie e cerca di dare importanza a quanto non lo ha e distoglie così l'attenzione da quanto è davvero evangelico: lo "stabat" di Maria, tra Cana e il Golgota, è immagine di un percorso di fede capace di riconoscere in Gesù il vino nuovo che ha fatto esplodere gli otri vecchi e nella sua croce la conferma della sua gloria.
Eppure, comincia il tempo ordinario, il tempo cioè in cui la liturgia accompagna l'approfondimento della fede dei credenti con il ritmo comune del susseguirsi delle domeniche, senza cioè festività particolari. Tutti quelli che ritengono che a messa si debba andare nelle grandi feste non hanno capito nulla della vita di fede. Al contrario: si può capire il senso delle grandi feste solo se si segue il ritmo ordinario della vita di fede. La forza della fede sta infatti proprio nella sua ordinarietà, perché è lì che la fede non è un valore aggiunto occasionalmente alla vita, ma coincide e combacia con la vita stessa.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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II Domenica del Tempo ordinario (C)
ANNO C - 20 gennaio 2013
LA FORZA DELLA FEDE