Prosegue la difficile chiarificazione del mistero per eccellenza senza il quale, però, inutile è la nostra fede e vana la nostra speranza. Il mistero della fede non chiede ossequio cieco e tutti gli scritti del Nuovo Testamento sono tentativi di trovare le parole per dire questo mistero, per renderlo comunicabile. Parole che vengono dal vocabolario della tradizione biblica, parole che vengono da altri lessici religiosi, parole che vengono dall' esperienza di coloro che hanno affrontato la sfida della predicazione. VITA PASTORALE N. 3/2013
V Domenica di Pasqua
At 14,21b-27
Ap 21,1-5a
Gv 13,31-33a.34-35
RUOLI E ASPETTATIVE
La trama del racconto giovanneo della passione e morte di Gesù è intessuta di gloria, lo sappiamo. Per Giovanni, la gloria non risplende "dopo", dopo il buio dell'abbandono, il terremoto della morte ingiusta e violenta, la desolazione del sepolcro oltre il quale c'è solo il nulla. La gloria per il quarto evangelista accompagna e scandisce già il cammino verso la croce, lo fa apparire per quello che esso è agli occhi della fede: vittoria di Dio, esaltazione di colui che, solo, può dire una parola creatrice e creativa dopo la morte, vittoria su tutte le infamie e tutta !'infamia della storia che ha reso la creazione, che Dio ama, luogo della menzogna e delle tenebre. La gloria, dunque, è il filo d'oro che rende il racconto giovanneo della passione splendente fin dal suo inizio.
Dopo la decisione senza ritorno da parte di Giuda, dopo il suo abbandono della comunione di tavola, che fa da incipit alla tragedia dell'arresto, del processo e della crocifissione, Gesù pronuncia parole che sembrano del tutto fuori contesto. Quel tradimento che viene consumato, non soltanto da coloro che sono stati accecati fin dal principio, ma da uno dei discepoli, quel tradimento che avviene proprio dopo che Gesù ha sancito, con il gesto della lavanda dei piedi nei confronti dei discepoli, quale possa essere l'unica forma di vita di coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla vita che non muore, quel tradimento intona !'inno di glorificazione. La pretesa del racconto giovanneo è almeno sconcertante: come può un tradimento incoronare il Figlio dell'uomo con la corona di gloria?
L'idea giovannea della reciproca glorificazione tra Dio e il Figlio dell'uomo non è facile. Soprattutto, poi, se continuiamo ad affidarci alla teologia della soddisfazione che per molto tempo ha penetrato la catechesi, nutrito la spiritualità, favorito l'etica del sacrificio e della rinuncia: non siamo forse convinti che Gesù ha accettato la morte ignominiosa per soddisfare con il suo sangue un Padre offeso e irato a causa di un peccato che, da Adamo in poi, aveva sottomesso e soggiogato un'intera umanità? Un'inchiesta ci confermerebbe che anche tra i cristiani dell'inizio del terzo millennio questa idea è diffusa. D'altra parte, quelli che restano sconcertati dall'idea che Dio ha bisogno di essere soddisfatto per un'offesa ricevuta sono già usciti dalle Chiese da molto tempo.
Questa visione dei rapporti trinitari improntata alla "soddisfazione" confligge però con la lenta purificazione dell'immagine di Dio che la storia biblica ci propone: il Dio degli eserciti che si fa carico delle vicende del suo popolo; il Dio che educa il suo popolo a passare dalla ritualità del sacrificio alla profezia della misericordia; il Dio del Messia che sostituisce al fuoco del giudizio l'elargizione senza remore della misericordia. Come Dio può dirsi soddisfatto dal sangue di suo Figlio? Anche il popolo dell'elezione abramitica, quando ha sperimentato l'orrore dello sterminio nazista, si è domandato dov'era il suo Dio, ha gridato il suo «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Il fatto che Dio lo abbia permesso non significa certo che lo abbia voluto a sua soddisfazione. Noi, invece, continuiamo a chiamare quello sterminio "olocausto" e continuiamo a credere che Gesù su quella croce abbia finalmente soddisfatto un Dio altrimenti implacabile. È forse questa la glorificazione che, stando al linguaggio giovanneo, il Figlio rende al Padre? Impensabile.
La glorificazione che Dio dà al Figlio non è neppure la restituzione alla vita, ma è la vita che non muore. Lì sta la forza di Dio e solo di Dio. Nel momento in cui Giuda consegna Gesù alla morte, lo consegna in realtà alla vita che non muore. Chiunque, quando entra nel mondo, viene consegnato alla morte. Chiunque quando entra nella storia viene consegnato al tradimento e all'abbandono. La promessa che, in Gesù, Dio ha già compiuto è che tutto questo altro non è se non un cammino verso la gloria della vita che non muore. È una "apocalisse", però, una rivelazione cui solo coloro che credono in lui possono accedere.
La seconda parte del discorso di Gesù cambia totalmente registro e argomento. Riprende quanto aveva detto ai discepoli, dopo la lavanda dei piedi, presentandosi loro come colui che serve. Della banalizzazione del vocabolario dell'amore o della sua riduzione a una sorta di schiavitù degli affetti oppure, addirittura, della sua strumentalizzazione a scopi che nulla hanno a che vedere con l'evangelo, dovremmo imparare a chiederci conto gli uni gli altri. Gesù ha testimoniato che l'amore ribalta ruoli e aspettative perché fa del Maestro colui che lava i piedi e dei discepoli coloro che devono accettare di farseli lavare. Non un amore universale, non un amore per tutti: un amore molto più esigente perché reciproco. Come quello tra il Padre e il Figlio.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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V Domenica di Pasqua (C)
ANNO C - 28 aprile 2013
L'AMORE RIBALTA