Diaconi del Vangelo: per quale identità?


Il diaconato in Italia n° 174
(maggio/giugno 2012)

CONTRIBUTO

Diaconi del Vangelo: per quale identità?
di Giovanni Chifari

Portare il Vangelo e annunciare Cristo, servizio e missione per tutti i cristiani, diaconia, responsabilità ed impegno per i diaconi, ma per quale identità? Questa domanda ci invita a discernere la profondità biblico teologica, la centralità cristologica e la tensione ecclesiale del diaconato, per evitare facili generalizzazioni, accomodamenti e compromessi vari che sembrano aleggiare fra le Chiese, determinando sovente uno stato di empasse del ministero diaconale.
A quasi cinquant'anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, anniversario che sarà celebrato con l'indizione, il prossimo 11 ottobre, dell'anno della fede, in un periodo nel quale non mancano iniziative, riflessioni e approfondimenti, per Chiese e teologi, assumere la domanda sulla natura e identità del diaconato, sarà un passaggio necessario per dichiarare il livello della propria maturità ecclesiale e per interrogarsi sui temi della comunione, collaborazione e corresponsabilità, parole chiave già al Convegno nazionale di Verona. Ne vale dell'identità stessa della Chiesa, di come essa si auto comprende e della sua conoscenza di Cristo.
La domanda non più rimandabile è allora: come non spegnere quell'evento di grazia e quel surplus di profezia che proprio il Concilio Vaticano II annunciava con il ripristino del diaconato nella forma non transeunte nella Chiesa? Una delle difficoltà puntualmente e costantemente ripresentata nel corso di questi decenni, sia sul piano ecclesiale sia sul versante teologico è stata quella d'inquadrare il ministero diaconale entro spazi e coordinate proprie. Invece ci si ritrova sempre a dover distinguere cosa è dei presbiteri, cosa dei diaconi e cosa dei laici. Quale spazio deve occupare il diacono nella Chiesa? A chi deve togliere o da chi deve prendere? Ma un'identità non si costruisce per appropriazione ma solo mediante attribuzione o meglio riconoscimento di quanto le è proprio. Sarebbe tuttavia riduttivo limitarsi a considerazioni di esclusivo appannaggio pastorale, né sarebbe fruttuoso insistere su ciò che il diacono può o deve fare, perché in realtà più che il fare è importante l'essere. Comprendiamo così che la domanda sull'evangelizzazione non è da poco, perché richiama uno di quegli aspetti generali, che appartengono a tutti i cristiani, che richiedono tuttavia un cammino di riscoperta e anche di profezia in rapporto all'identità di chi "diaconizza" il Vangelo. Un tema generale e comune ad ogni cristiano come quello dell'evangelizzazione è in grado di dire qualcosa sull'identità del diacono? Se tutti i cristiani, esercitando la loro dimensione profetica, sono chiamati ad annunciare, quale sarà la peculiarità del diacono? Che cosa dovrebbe comprendere il diacono che s'impegna nel servizio dell'evangelizzazione? Quale identità? Si tratterà allora di riscoprire e comprendere la profondità teologica e la portata profetica dell'evangelizzazione, compito arduo e mai concluso, al quale ci si può solo accostare, perché il percorso meriterebbe un'analisi ben più rigorosa e sistematica. Per questo ci si limiterà ad offrire solo qualche spunto a partire da una riflessione biblica sul tema, per esplorare alcuni passaggi a prescindere, in questo primo stadio, dai protagonisti dell'annuncio, per cercare di individuare l'orizzonte di ogni diaconia evangelizzatrice. Senza cercare principi o regole ma solo confidando nella forza della Parola e nella sua potenzialità creatrice.
Una prima considerazione generale nasce dall'osservazione del già noto panorama delle ricorrenze terminologiche del gruppo lessicale diak negli scritti del NT, dove non passa inosservato il legame del diakonos inteso come ministro e servitore, con il Vangelo. Lo lascia chiaramente intendere l'Apostolo Paolo in Ef 3,7, dichiarando di essere divenuto, per grazia di Dio, ministro, ovvero diakonos, del Vangelo. Questa ed altre ricorrenze che qualificano l'apporto del ministro e servitore ci aiutano a delineare il substrato comune ad ogni diaconia nella Chiesa.
Essere diaconi o ministri del Vangelo è innanzitutto un'esperienza di amore. Incontro che ha rinnovato e cambiato l'identità di chi lo ha accolto e riconosciuto. Solo chi ha fatto esperienza di Dio può divenire evangelizzatore e testimone autentico e credibile. Così si comprende che Vangelo e vita, fede e storia, non possono essere separati in chi si dichiara discepolo di Cristo, perché sono radicate nell'essere e nel rimanere in comunione con Lui. Verità espressa nel Vangelo di Giovanni con l'immagine della vite e dei tralci che rivela la necessità di dimorare in Cristo (cf. Gv 15,5). Solo così sarà possibile portare frutto ed evangelizzare.
Essere ministri del Vangelo non sarà un'altisonante e appariscente decantazione (cf. 1Cor 13,1) ma significherà essere inchiodati alla verità, mediante l'esperienza della conversione del soggetto all'oggetto, un percorso che prima di essere intellettuale è quindi esperienziale. Stiamo parlando infatti di un processo che avviene per opera della grazia divina che agisce nello Spirito, che non lascia dubbi o incertezze poiché è fondato sull'autenticità del suo contenuto: Gesù il Cristo, è stato crocifisso ed è risorto! Verità alla quale si accede, ancora una volta, mediante l'amore, che, come ricorda l'Apostolo, per opera dello Spirito Santo «è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5). L'amore genera pentimento, ringraziamento e comunione (cf. Lc 7,36-50). C'è quindi alla base un'esperienza di amore. Per questo sempre l'Apostolo potrà affermare alla comunità di Tessalonica: «Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1Ts 2,8). E sarà sempre quest'amore, che esprime il primato di Dio e la docilità all'azione dello Spirito, a sostenere le fatiche dell'evangelizzazione: «Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio» (1Ts 2,9).
Quest'amore renderà la conversione come un processo mai concluso, offrendo anche uno sguardo sapienziale per rileggere nella propria vita il passaggio di Dio anche attraverso la feconda ed efficace mediazione di tanti fratelli. Senza amore e senza conversione, qualsiasi carisma, abilità comunicativa o eloquenza retorica del soggetto (cf. At 18,24ss) non potrà divenire una diaconia performativa, capace di servire e mediare l'incontro con Cristo. Non è che a forza di annunciare ci si converte, perché la Scrittura ci mostra implacabilmente che è possibile servire senza seguire (cf. Mt 7,21-22). Allo stesso modo neanche le grandi opere, pur compiute nel nome di Cristo, costituiscono un lasciapassare verso la vita eterna.

Servi e strumenti
L'identità diaconale si manifesta nell'atto dell'evangelizzazione attraverso il riconoscimento dei limiti e delle povertà del ministro di fronte ad una missione che continua ad essere feconda, donando conforto e consolazione (cf. At 9,31), poiché è sostenuta dall'opera dello Spirito Santo e non dalla presenza ingombrante del soggetto. Consapevolezza che annuncia il primato di Dio e l'essere servo e strumento dell'uomo. Quest'ultima è l'unica condizione per gustare la gioia degli esiti dell'evangelizzazione, vale a dire l'accoglienza della Parola di Dio fra le genti, il suo portare frutto (Lc 2,10; 24,52; 1Ts 2,11; At 8,7.15) e aprire strade anche nei deserti (cf. Is 43,19). Scoprire che l'evangelizzazione non si compie con mezzi umani (cf. Mc 4,35-41) sarà un ulteriore passaggio verso un'identità diaconale. Il Vangelo è, infatti, affidato ai ministri (1Ts 2,4) come eredità che non appartiene, ma va solo servita, partecipando all'opera della missione di Dio. " primato è sempre da assegnare alla grazia divina.
Si è infatti costituiti apostoli e servitori del Vangelo (cf. 1Tm 1,11). Altro passaggio che richiama l'identità del diacono che evangelizza si potrà rintracciare nel servizio di una mediazione umile e inevidente. Chi evangelizza, infatti, oltre ad annunciare, media, consentendo l'incontro con Cristo. Nel diacono ciò è radicato nella sua grazia di stato, e rappresenta l'attuazione di un memoriale che esprimerà sempre il primato di Colui che invia, e anche la docilità alle Scritture delle quali ogni evangelizzatore, e quindi anche il diacono, è divenuto depositario, servo e strumento (cf. At 13,47). La mediazione del diacono che evangelizza sarà chiamata a coniugare kerigma e storia, fede e missione, Parola e sacramenti. Questa mediazione è anticipata nella vita, e si manifesta nella quotidianità, in famiglia o al lavoro, nella disponibilità ad essere ponte che conduce a Dio.
Il servizio del diacono verso ogni forma di marginalità e verso gli ultimi è un'evangelizzazione che sgorga dalla sua identità, da una vita naturale impregnata di vita soprannaturale (cf. EN 47), e dal legame fra la diaconia della Parola, nella sua triplice forma, kerigmatica, profetica e didascalica, con l'altare e quindi con l'eucarestia. Per il diacono ci sarà allora un unico processo, un'unica azione, nel senso che la sua evangelizzazione sarà piena e completa solo quando porterà con sé sull'altare, in nome della Chiesa, le storie e le sofferenze, ma anche le gioie e le attese del popolo di Dio. Il diacono, scoprendosi ponte e mediatore, immerso nella storia, raggiungendo ogni situazione di confine, di esclusione e di marginalità, donando il Vangelo della consolazione, della speranza e della pace, potrà farsi carico del peso di quanti hanno bisogno di deporre presso di lui le proprie croci chiedendogli di portarle con sé presso l'altare, ma dovrà anche educare alla fede quanti hanno ricevuto la Parola e quindi possono aprirsi alla fecondità dei sacramenti. Così come ricordava Paolo VI: «Il compito dell'evangelizzazione è precisamente quello di educare nella fede in modo tale che essa conduca ciascun cristiano a vivere i Sacramenti come veri Sacramenti della fede, e non a riceverli passivamente, o a subirli» (EN 47).
Un po' come accade ai discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35), le Scritture conducono a riconoscere Cristo nell'eucarestia e poi questa gioia è comunicata in forma di apertura alla comunità e missione verso i poveri e gli ultimi. Esempio che per il diacono, significherà vivere il legame fra Parola e Sacramenti come una costante circolarità, nella quale, per mezzo della sua mediazione, entrano anche i poveri e gli ultimi.
Tutto sembra richiamare la necessità della comunione con Cristo, primo "diacono" ma anche Vangelo e buona notizia. È decisivo l'esempio di Cristo. C'è una configurazione cristologica, che attinge al suo esempio normativo. L'evangelizzazione dovrà sempre sgorgare dall'esperienza di un tempo di deserto e di purificazione. Condizione necessaria per guardare il nulla dell'uomo di fronte a Dio, per cogliere la povertà e la limitatezza delle forze umane, e aprirsi all'abbandono fiducioso nella preghiera. l'evangelizzazione sarà così risposta ad una chiamata, per questo è anche preceduta dalla preghiera per il padrone della messe (cf. Mc 9,36). Come agnelli in mezzo ai lupi (Lc 10,3), senza borsa, sandali e bisacce (Lc 10,4), quanti sono inviati ad evangelizzare devono poter fare esperienza di un servizio che è espressione di una missione che è la stessa di Dio, accettando di essere prolungamento del suo agire salvifico nella storia. Strumenti di pace, mediatori della pace, vero balsamo divino che benedice e santifica la casa nella quale essa riposa, per opera dello Spirito (cf. Lc 10,7-8). Ecco l'assoluto protagonismo divino, poiché sarà dalla casa che ha accolto la pace, e vive nella pace, che si diffonderà quell'ulteriore slancio dell'evangelizzazione verso le altre case vicine e verso l'intero villaggio e paese.
Questo perché ogni ministro e annunziatore possa osservare che non è suo merito se il messaggio di salvezza si dirama, perché ognuno è solo servo e strumento. Nessuno di quanti hanno accolto la pace e hanno fatto esperienza di Dio rimarrà legato da vincoli e condizionamenti, pubblicità o referenzialità obbligate verso il ministro mediatore dell'annuncio. Ma tutto sarà focalizzato su Cristo, per questo c'è gioia. Nessun compiacimento, niente congratulazioni, o autopromozioni, riconoscimenti e soddisfazioni, niente plausi umani, niente aspettative e niente potere. Cosa dunque domandare a quanti hanno incontrato Cristo, facendo esperienza dell'amore, della fatica e della mediazione dell'evangelizzatore? Che cosa chiedere a loro? Forse potremmo domandare:
"Cos'è questa pace e questa gioia per la quale è cambiata la tua vita? Anzi, chi è?". Perché tutto sia centrato su Cristo.
La chiesa primitiva faceva rinnovata esperienza di questa diaconia e di questo abbandono fiducioso nello Spirito. Oggi tuttavia lo scenario sembra essere diverso. Sembra disorientarci e sorprenderci. Questa libertà evangelica appare oscurata da irrimandabili priorità, anche di bilancio, verso le quali forse si può sacrificare qualche pagina evangelica. Bisognerà ripartire dal programma tracciato dal pontefice Benedetto XVI il 25 settembre a Friburgo. Una chiesa aperta al servizio della missione, che non si adatta ai criteri del mondo, capace di fare memoria dei processi di condizionamento del suo sviluppo storico, riuscendo a discernere l'esito anche positivo dei processi di secolarizzazione e quindi di purificazione.
Esigenze «di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile». Perché «la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell'adorazione di Dio e al servizio del prossimo. Il compito missionario, che è legato all'adorazione cristiana e dovrebbe determinare la struttura della Chiesa, si rende visibile in modo più chiaro. La Chiesa si apre al mondo, non per ottenere l'adesione degli uomini per un'istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in se stessi e così condurli a Colui del quale ogni persona può dire con Agostino: Egli è più intimo a me di me stesso (cf. Conf. 3,6,11). Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell'oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell'oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine».
Il diacono con il suo servizio di evangelizzazione e con la sua presenza all'altare è forse icona di questa identità ecclesiale omessa o smarrita. Da qui forse nascono le difficoltà nel percepirne natura e prospettive, poiché il diaconato nella Chiesa è un pungolo che invita all'autenticità, alla conversione e alla fedele sequela di Cristo.
Un'evangelizzazione che porta la pace (Lc 10,8-9), che entra nelle città, volgendosi verso antiche e nuove marginalità, per condividere, guarire, annunciare. Tre passaggi di un'evangelizzazione che predica Cristo e porta a Cristo, al suo amore e alla sua pace. Mangiare quello che sarà offerto diverrà segno di comunione, guarire quanti sono nella malattia, evento che accompagnava le prime missioni degli apostoli, significa rinnovare l'esperienza della presenza di Gesù stesso, percepito nel segno ma incontrato nella Parola.

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