XXVIII Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B – 14 ottobre 2012
XXVIII Domenica del Tempo ordinario

Sap 7,7-11
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30

LA SOLIDARIETÀ
AL CUORE DELLA LEGGE

Il problema della ricchezza è sempre stato uno dei nervi scoperti della catechesi cristiana. Problema difficile, scivoloso, sul quale i cristiani rischiano la loro credibilità. Nelle parole di Gesù non s'insinua mai un'esaltazione della povertà in sé, come valore ascetico, né tanto meno possono essere ridotte a un "consiglio evangelico" rivolto solo ad alcuni. Dal brano di Marco risulta con chiarezza che l'orizzonte di fondo sul quale va collocato il problema della ricchezza è quello della ricerca dello spirito autentico della legge, che supera di gran lunga la lettera del precetto.

La risposta data da Gesù all'uomo ricco che voleva ottenere la vita eterna è di un radicalismo assoluto. Non stupisce che quell'uomo non sia stato in grado di capire questa richiesta e di metterla in pratica. I seguaci di Gesù hanno sperimentato tutti, sempre, la stessa difficoltà. Noi compresi. Non si tratta di una richiesta rivolta a una sola persona o a un gruppo: la risposta di Gesù pretende di stabilire una condizione imprescindibile per la sequela, una norma fondamentale per accettare il Regno. La chiamata a un totale distacco dai beni a causa del Vangelo non conosce eccezioni.
È pensabile un'interpretazione letterale di questa parola evangelica? Se tutti noi cristiani, privati e istituzioni, dobbiamo rifiutare di possedere qualsiasi bene e vendere tutto per poter seguire Gesù, chi comprerà tutto, i non cristiani? Su questa parola di Gesù tutti, perfino i gruppi più fondamentalisti, hanno cercato di ottenere qualche esenzione! È pur vero però che, se cominciamo a relativizzare la risposta di Gesù, adattandola alla misura delle nostre possibilità, va a finire che l'annuncio del Vangelo ci lascia esattamente uguali a come eravamo prima, in nulla diversi da quelli che sono pienamente integrati nel mondo della finanza e della speculazione, del mercato e dei suoi dettami, capaci, sia pure con buona coscienza cristiana, di accumulare tesori e di sottostare alle leggi della concorrenza economica. Non è forse questa l'immagine che in tanti hanno della Chiesa, degli ordini religiosi, dei movimenti, di molti "buoni cristiani" che servono due padroni?

La domanda dell'uomo ricco e la risposta di Gesù c'interpellano a fondo e ci fanno sentire tra due fuochi. Per dirla con le parole della lettera agli Ebrei, penetrano "fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito". Cercare vie d'uscita troppo rapide, riproporre la distinzione tra i molti a cui deve bastare la fedeltà ai dieci comandamenti e i pochi cui viene chiesta la strada impervia della perfezione evangelica, oppure ammorbidire il radicalismo di Gesù trasponendo le sue parole al livello di una sublimazione spirituale o di un equilibrio della ragionevolezza: la predicazione cristiana è caduta troppo spesso nella trappola di soluzioni che lasciano il tempo che trovano perché non rispettano il fatto che il Vangelo, a volte, non vuole essere un insegnamento chiaro, ma una provocazione, parla più degli atteggiamenti di fondo da avere che non di quello che si deve fare.
Invita a relativizzare quanto appartiene al mondo presente, i beni, ma anche la stessa famiglia, le ricchezze, e anche le rigide convinzioni religiose perché la predicazione del Regno comporta che tutto il resto sia ridimensionato. La regola del centuplo svela che la logica del Regno non è mai quella della sottrazione, della mortificazione, dell'anoressia di fronte a quanto la vita può dare: Dio non toglie, moltiplica; non sottrae il possibile, consente l'impossibile; chiede di lasciare uno per elargire cento, di misurare la bellezza della vita con il metro della vita eterna.
Accettare l'esperienza dell'inadeguatezza, soprattutto dell'ambiguità, è un punto di partenza importante. L'unico che consente di mettersi di fronte a "colui al quale noi dobbiamo rendere conto", come leggiamo nella lettera agli Ebrei, nell'atteggiamento giusto, quello della preghiera per la prudenza e dell'implorazione della sapienza. La consolante trasparenza del discorso di Salomone sulla sapienza fa capire che l'impossibile può diventare possibile. Gandhi diceva che non è necessario lottare con sé stessi per rinunciare alle cose, perché sono le cose che lentamente scivolano via man mano che progrediamo nella via della sapienza.

Il sapiente sa che i comandamenti non sono il metro di misura della volontà divina e che, al contrario, colui che prega per ottenere la sapienza scruta il decalogo per cercarvi la volontà divina. Perché non uccidere, perché non commettere adulterio, perché onorare il padre e la madre? Si possono osservare tutte queste cose fin dalla giovinezza, senza essersi dati conto del perché, senza averne colto lo spirito profondo. Il decalogo traduce in norme di vita collettiva un'idea di fondo, teologica prima ancora che etica, che sta al cuore della legge e della sequela: la solidarietà. Riconoscersi creati significa ammettere che lo sono anche tutti gli altri esseri che sono al mondo; riconoscersi chiamati a costituire un unico popolo impone di stabilire vincoli di solidarietà che non consentono di uccidere, di rubare, di frodare e di perseguire come bene proprio il bene comune. E, nonostante spesso sia duro farlo, anche di ammettere che la ricchezza di alcuni è, troppo spesso, a scapito di altri.

VITA PASTORALE N. 8/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)


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