Il giusto è "di incomodo". Una constatazione che percorre la storia, e non solo quella biblica, e la trafigge. Chi ha avuto occasione di lavorare per i giornali sa cosa sia un "coccodrillo", un articolo breve, preparato in anticipo perché dev'essere pronto nel caso in cui un personaggio importante muoia all'improvviso. Un piccolo panegirico che tutti sanno essere condito con "lacrime di coccodrillo". Su quanti giusti, di ogni epoca, cultura e religione, sono state versate lacrime di coccodrillo? È certamente vero che, nella storia di uomini e donne concreti, non esiste mai il bianco e il nero, nessuno è assolutamente impeccabile e nessuno, forse, totalmente perverso. Ed è pure vero che le regole dell'elogio funebre impongono, soprattutto per personaggi pubblici, di tirare a lustro le parole. Il problema è che di molti, troppi, "giusti" non è stato mai cantato l'elogio, e il libro biblico della Sapienza ci fa capire il perché. VITA PASTORALE N. 8/2012
XXV Domenica del Tempo ordinario
Sap 2,12.17-20
Gc 3,16-4,3
Mc 9,30-37
I PICCOLI, MISURA
DELLA FEDE COMUNE
La vita del giusto ci giudica, la sua morte ci condanna. Troveremo qualcuno che ha il coraggio di gridarlo sui tetti e di restituire soprattutto ai giovani il coraggio della speranza? Infinite ricerche statistiche e sociologiche ci dicono che siamo diventati un Paese di vecchi. È vero, ma sarebbe ora di capire che non si tratta soltanto di una condizione anagrafica. Ormai anche i nostri giovani rischiano di nascere alla vita "vecchi", consumati dal rancore e dal cinismo, atterriti e irretiti dall'imbroglio e dal malaffare, dalla sopraffazione dei furbi e dalla prepotenza degli empi.
Abbiamo condannato i giusti a una morte civile prima ancora che alla morte fisica: di loro non si parla, non devono esistere, non possono far sentire la loro voce di denuncia e di condanna, di proposta e di speranza. Altrimenti, non sarebbe possibile "spacciare" ogni forma di droga, da quelle chimiche a quelle più sofisticate e non meno pericolose degli ipermercati e dei pacchetti vacanze, dei consumi facili e delle seduzioni momentanee. Altrimenti, il sistema che si regge sulla distrazione di massa collasserebbe. Se poi si nasce già vecchi dentro, poco importa.
Per tre volte Gesù nel vangelo di Marco profetizza il suo cammino di sofferenza e di morte ed è anche attraverso questa insistenza che istruisce i discepoli. Li prepara, cioè, a restare discepoli: il problema del discepolato, infatti, non è diventare discepoli, ma restare discepoli. Tutta la storia biblica attesta, infatti, che il Dio unico, il più potente tra tutti gli dei, colui che ha creato il mondo e ha liberato il suo popolo, Israele, conosce la sconfitta: il suo popolo tradisce l'alleanza, il suo Messia viene messo a morte.
Che i discepoli non comprendano, non deve stupire: è un motivo di fondo del vangelo marciano. Anche perché alla fine, cioè dopo aver sperimentato fino in fondo che la morte del giusto è, in realtà, il momento del trionfo di Dio, anche quegli stessi discepoli arriveranno a capire che seguire il "Giusto" e restargli fedeli significa convertirsi: convertire le proprie aspettative e i propri atteggiamenti, i propri desideri e i propri comportamenti. È tornata di moda, oggi, la frase che ebbe a dire John F. Kennedy: «Non chiederti cosa l'America può fare per te, ma chiediti cosa tu puoi fare per l'America». Di questo modo di pensare si è nutrito chi, negli anni '60, riteneva che il mondo avrebbe potuto diventare un po' più umano, la terra più abitabile, gli uomini e le donne più capaci di altruismo e di coraggio. Tutto è stato archiviato, come succede con le grandi speranze. Eppure, Gesù non pretende forse che i suoi discepoli si convertano al servizio come stile di vita?
Se anche nella comunità di coloro che andavano dietro a Gesù si mirava al potere, non ci può certo stupire che lungo la storia anche le Chiese abbiano fatto altrettanto. Nessuna realtà collettiva, nessuna realtà associata, nessuna religione vive senza un'organizzazione interna del potere, inutile far finta di non saperlo. L'evangelista Marco deve aver sperimentato che perfino nella comunità cristiana le "discussioni lungo la via" sono, quasi sempre, su chi sia "il più grande". Nel momento in cui, allora, mette accanto alla seconda predizione della sua morte da parte di Gesù un'istruzione sul servizio egli fa un'operazione autenticamente profetica: solo una comunità in cui si pratica il servizio reciproco è una comunità discepolare. Coloro, soprattutto tra i responsabili, che si sottraggono alla regola del servizio fraterno, perché pensano che i moniti di Gesù riguardino altri e non loro, ledono l'identità stessa della comunità perché lì dove manca il servizio, è venuta meno la fede.
I "piccoli" devono essere il metro di misura della fede della comunità cristiana. Non è questione di età. I "piccoli" sono coloro che non possono e non vogliono guardare alle Chiese con realistico cinismo, sono quelli che ancora si scandalizzano quando vedono che i discepoli discutono tra loro su chi sia il più grande. I "piccoli" sono coloro che dall'appartenenza religiosa non vogliono ricavare né gloria né potere. Proprio per questo bisogna diventare come loro. Non sono stupidi a cui riservare una religiosità ingenua e puerile. Né sono privi di esigenza critica, come spesso si dice quando si vogliono mettere a tacere le voci profetiche. Non vanno trattati paternalisticamente, vanno accolti e ascoltati.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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XXV Domenica del Tempo ordinario (B)
ANNO B – 23 settembre 2012