XV Domenica del Tempo ordinario (B)


ANNO B – 15 luglio 2012
XV Domenica del Tempo ordinario

Am 12-15
Ef 1,3-14
Mc 6,7-13

UNA PAROLA
DA ANNUNCIARE

Il filo conduttore che collega le tre letture liturgiche è chiaro: la vocazione del profeta Amos, quella dei dodici e quella di tutti i cristiani. Prima di dirci qualcosa su coloro che vengono chiamati, esse ci dicono molto su colui che chiama. Alla base della vocazione di Amos c'è l'assoluta indipendenza di Dio nella scelta di chi sarà suo profeta. Amos è un pastore del sud di Israele, della Giudea, che si sente chiamato ad andare in Galilea, la regione benestante in cui il re e i responsabili del regno, poco lungimiranti, presentavano le conquiste raggiunte come garanzia di assoluta tranquillità e sicurezza. Amos arriva nella regione di Betel, annuncia che un imminente disastro si sta per abbattere sugli israeliti del regno del nord e insiste perché cambino il loro stile di vita oltre che le loro previsioni politiche. È una predicazione difficile, che va controcorrente sia rispetto a coloro che hanno in mano il potere, sia rispetto alla gente, che raramente vuole sentirsi indicare strade faticose da percorrere.
La povertà di Amos, i fatti storici che gli danno ragione, la forza che gli viene dalla presa di coscienza di ciò che Dio vuole e che gli consente di affrontare un intero Paese sono segnali chiari di ciò che Dio considera come missione da compiere nel suo nome. La disponibilità di Amos a prendersi con coraggio la responsabilità di quanto Dio gli chiede ci mette allora sull'avviso di quali siano i criteri con cui Dio si fa strada tra gli uomini.

Il vangelo di Marco descrive l'invio in missione dei dodici con una semplicità e una chiarezza che non lasciano dubbi su quale sia lo stile che Gesù chiede ai suoi discepoli. La missione consiste nell'annunciare la salvezza del Regno e accompagnare questa parola con la cura delle malattie secondo il sistema proprio del tempo, cioè ungendo i malati con olio. I miracoli, però, non erano altro che segni di una salvezza profonda e radicale dell'essere umano e del suo ingresso nel Regno. È poi importante, però, che sia Gesù stesso a fissare e stabilire lo stile della missione. Egli aggrega infatti i discepoli alla sua stessa missione e ne resta sempre lui il primo e vero responsabile.
Gesù pretende la stessa povertà di comportamento che era praticata dai predicatori itineranti dell'epoca, che facevano leva sulla forza di convincimento che viene dalla povertà e dall'austerità della vita. Lo hanno capito tutti quelli che hanno voluto incidere con determinazione nella storia degli uomini, da san Francesco a Gandhi agli infiniti uomini e donne che nel silenzio hanno attestato con la potenza della loro povertà che solo Dio e non mammona può cambiare il mondo. La predicazione del Regno da parte dei discepoli di Gesù avveniva in contesto semplice, rurale; si poteva realizzare andando a piedi da un villaggio a un altro, mentre le cose cambieranno quando alcuni apostoli, e Paolo tra loro, porteranno la predicazione cristiana nelle grandi città del Mediterraneo. Paolo viaggiava senza grandi comodità, ma certamente la sua missione comportava un'organizzazione complessa e un certo dispendio di denaro.
Una cosa è comunque certa: pur nella mutazione di alcune importanti variabili, resta fermo il principio impresso da Gesù stesso alla sua missione. Egli non ha mai assicurato il successo, ma ha preteso indicare quale debba essere il comportamento degli inviati. La povertà di mezzi non è un valore in sé, ma serve a indicare che al centro della missione c'è il messaggio, non il messaggero. Il missionario non ha nulla da guadagnare dalla missione, e la missione non ha né sostegni né sponsor.
Il messaggio basta a sé stesso. Deve convincere non il missionario, nemmeno per la sua povertà, ma solo l'annuncio del Regno.

Inevitabilmente, allora, viene da chiedersi, e non senza trepidazione, quale sarà la "novità" della ."nuova evangelizzazione" in cui la Chiesa cattolica sta riponendo fiducia e investendo forze. Il Dio di Gesù, che è lo stesso Dio di Amos e degli altri profeti, domanda oggi alla sua Chiesa una predicazione difficile. Non perché agli uomini e donne dei cinque continenti debbano essere imposti pesi che non possono portare, ma perché la missione deve compiersi non con la forza del potere, ma con l'esempio evangelico, con la forza di una parola che attesti l'autenticità di chi la pronuncia. Una Chiesa che si prepara a celebrare un Sinodo per la "nuova evangelizzazione" sarà capace di lasciarsi interpellare a fondo dalla pretesa missionaria del suo maestro e Signore?
Dalla lettera di Paolo ai cristiani di Efeso, viene però un'altra prospettiva a partire dalla quale guardare alla Chiesa e alla sua missione, quella della grande economia di Dio che procede dal suo amore e dalla sua provvidenza. Fin dalla creazione, Dio accompagna l'umanità e, nella pienezza dei tempi, ha voluto dimostrare il suo amore attraverso Gesù, il suo Cristo chiamato dalla morte alla gloria, e attraverso l'effusione del suo Spirito. La predicazione del Regno arriva così alla sua pienezza. Una pienezza non più solo promessa, ma anche garantita dalla forza stessa di Dio. Al centro dell'evangelizzazione, allora, non può che esserci la celebrazione dell'eucaristia, luogo missionario per eccellenza, in cui coloro che ascoltano il Vangelo della loro salvezza, credono in esso, ricevono il sigillo dello Spirito e vengono fatti partecipi di un'eredità che non è solo per loro.

VITA PASTORALE N. 6/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)



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