Chi ha partecipato al grande Convegno ecclesiale "Gesù, nostro contemporaneo" che si è svolto a Roma il 9-11 febbraio, sa che la scena dell'Auditorium della Conciliazione era dominata da un particolare dello splendido quadro di Caravaggio: Tommaso che mette il dito nella piaga del costato di Gesù. Il realismo di quel dettaglio, ingigantito per fare da sfondo al palco, non poteva non imporsi sull'affollatissima e attenta platea. In quel contatto, preteso e al contempo temuto, tra il dito del discepolo e la piaga del Maestro, Caravaggio è riuscito a riassumere quello che per l'evangelista Giovanni è il paradosso della fede: credere significa "vedere", ma l'ideale del discepolo è credere senza vedere. Tutto il quarto evangelo è scritto per portare alla luce questo paradosso che riassume in sé l'esistenza del credente. E quella gigantografia imponente ricordava che la fede non produce mai nessun antidoto all'incertezza. VITA PASTORALE N. 3/2012
II Domenica di Pasqua
At 4,32-35
1Gv 5,1-6
Gv 20,19,-31
CREDERE NEL RISORTO
ANCHE SENZA VEDERE
Molti dei racconti di apparizione hanno per protagonista la comunità nel suo insieme, riunita nell'azione liturgica, mentre altri sono invece costruiti su un protagonismo individuale. L'episodio di Tommaso combina insieme l'aspetto strettamente individuale della fede e quello comunitario. L'atteggiamento di Tommaso è per l'evangelista paradigmatico. Riproduce cioè l'atteggiamento del credente in quanto tale, di ogni generazione. L'oscillazione tra la fede della comunità e la fede individuale, tra il credere e il non-credere: questa è la situazione di ciascuno di fronte al Risorto.
Dopo aver narrato l'apparizione del Risorto a Maria di Magdala e l'inizio, con la testimonianza di questa donna, della "catena apostolica" dell'annuncio della risurrezione, Giovanni presenta la stessa realtà in termini però di esperienza comunitaria. Siamo sempre nel giorno della risurrezione, quello che ha avuto inizio all'alba, con il passaggio di Gesù dal sepolcro di morte a una forma di vita totalmente altra, avviene ancora la sera. Quel giorno, il primo dopo il sabato, diviene così il dies dominicus, il giorno del Signore. Ha inizio un'altra storia.
Se la testimonianza della risurrezione fosse collegata soltanto a esperienze individuali, avrebbe perso in breve tempo la sua forza. Nel corso dello "stesso giorno" essa è divenuta subito, secondo Giovanni, esperienza condivisa, cioè esperienza ecclesiale. In realtà, non sappiamo quali siano stati i tempi effettivi della ricerca discepolare di una fede comunitaria. L'indicazione temporale «la sera di quello stesso giorno» non ha un valore strettamente cronologico. Vuole dire con chiarezza che non esiste una fede nel Risorto che non sia saldamente ancorata a un'esperienza individuale, e, d'altra parte, che non può esistere una fede nella risurrezione di Gesù che non sia condivisa da una comunità ecclesiale. Quasi tutti oggi affermano di credere in Dio, un Dio possibilmente fatto a propria immagine e somiglianza e, soprattutto, segregato nella sfera delle emozioni individuali. Invece, in quel «primo giorno della settimana» che vede insieme l'esperienza strettamente personale di Maria e di Tommaso e quella comunitaria dei discepoli riuniti insieme, in quel dies dominicus, ci viene presentata l'unica reale possibilità di fede nel Dio di Gesù Cristo, quella cioè individuale ed ecclesiale insieme.
Ai discepoli riuniti da una comune paura, il Risorto chiede di vedere nei segni del supplizio il compimento della profezia messianica e della nuova creazione e Tommaso, nella sua incredulità, ha perfettamente ragione: senza vedere e toccare, come si può pensare che il linguaggio della risurrezione non sia altro che uno dei tanti miti religiosi che fanno uscire i credenti dalla storia per sequestrarli in un immaginario religioso fatto di pure fantasie? La pretesa di Tommaso, presentata come campione di incredulità, salva invece la fede dalla deriva mitica. L'unica beatitudine che la risurrezione porta con sé è quella di poter credere che colui che è Risorto è l'uomo Gesù senza aver più bisogno di vedere e toccare.
Se una difficoltà della fede è sempre stata quella di credere in Gesù senza poterlo più vedere, non si può fare a meno di dire che una seconda difficoltà viene, in alcuni momenti più ancora che in altri, perché la vita della Chiesa è, invece, anche troppo visibile. Quel quadretto ideale che Luca tratteggia all'inizio del libro degli Atti non perde forse di credibilità di fronte a una martellante campagna di informazione che ormai quotidianamente trasmette un quadro contrario della realtà ecclesiale? Nel migliore dei casi, forte è la tentazione di rinunciare a un'appartenenza, o perché presentata nei toni enfatici di come dovrebbe essere o perché sbeffeggiata per come a volte non può fare a meno di essere.
Non c'è dubbio che oggi l'ecclesialità della fede è davvero minacciata. Qualsiasi donna sa che un processo di gestazione che, per qualsiasi causa, s'interrompe, ingenera una setticemia che si diffonde per tutto il corpo. Il concilio Vaticano II ha rappresentato un momento in cui, per la Chiesa cattolica, ha avuto inizio qualcosa d'importante e di vitale: nell'anno in cui riandiamo con la memoria all'inizio di quel momento di grazia non può venire meno anche il coraggio della diagnosi.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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II Domenica di Pasqua (B)
ANNO B - 15 aprile 2012