ANNO B - 18 marzo 2012
IV Domenica di Quaresima
2Cr 36,14-16.19-23
Ef 2,4-10
Gv 3,14-21
IV Domenica di Quaresima
2Cr 36,14-16.19-23
Ef 2,4-10
Gv 3,14-21
LA FEDE COMPORTA
LA NASCITA DALL'ALTO
Gerusalemme: per chi crede come per chi non crede è città che interpella e inquieta, città che è divenuta, lungo secoli e secoli di storia, fonte di trepidazione per il mondo intero. Abbiamo bisogno, in un tempo in cui da Gerusalemme vengono ripetutamente segnali preoccupanti, di guardare alla città santa con speranza e allegria.
Con la fiducia che viene dalla luce della pasqua. Nel tempo di Quaresima, del resto, forte è la tensione tra consapevolezza della sofferenza e speranza della liberazione, tra crescente angoscia di morte e attesa di una vittoria che renda finalmente giustizia di ogni lacrima. E la vicenda del Messia è parabola della vita di ogni uomo e di ogni popolo.
Il secondo libro delle Cronache descrive la situazione di deportazione di Israele a Babilonia. Un avvenimento terribile, che sembrava aver messo fine alla vita di un intero popolo. Lunghi anni di sofferenza a cui riesce a porre fine soltanto uno straniero: Israele è ormai costretto a imparare che la sua sovranità, il suo diritto di decidere qualcosa sulla sua stessa storia, è limitata e che, per di più, questo è il volere dell'Altissimo. Rallegrarsi per Gerusalemme diviene di nuovo possibile, certo, ma in molti, ormai, sono costretti a restare dispersi tra le nazioni: indietro non si torna.
II discorso con Nicodemo è il primo dei grandi discorsi di Gesù attraverso i quali l'evangelista Giovanni rende manifesto il significato della rivelazione di Dio al mondo. Si tratta dunque di un discorso di "rivelazione". Un termine, questo, che non viene incontro alla nostra esigenza di capire in modo chiaro e distinto tutta la realtà, compreso Dio. Non sempre, invece, la contraddittorietà è meno rivelativa dell'univocità, anzi, spesso il quarto evangelista la predilige proprio perché, rendendo il discorso su Dio più paradossale, lo rende più capace di esprimere l'alterità di Dio. Dal punto di vista letterario, il discorso tra Gesù e Nicodemo è composito, frutto della giustapposizione di diversi elementi tematiche.
Alla curiosità del fariseo Nicodemo, capo dei Giudei, Gesù risponde con una sorta di dichiarazione programmatica: la fede chiede e comporta una "nascita dall'alto", una nascita dallo Spirito che soffia dove vuole. Alla difficoltà di Nicodemo, che riassume in sé la difficoltà a trasformare radicalmente sé stesso e ad aprirsi alla novità - difficoltà ancora più forte per un religioso che per un non-credente! - Gesù risponde insistendo su un termine che in greco ha due significati: "di nuovo" e "dall'alto". In questa ambivalenza, molto tipica della mentalità giovannea, c'è un'indicazione importante. La novità assoluta di Gesù viene dall'alto. Qui sta la sua legittimazione e da qui viene la sua forza. Quando egli chiede di nascere "di nuovo" non significa ri-nascere una seconda volta in carne e sangue, ma significa nascere "dall'alto", cioè da Dio.
La prima parte del dialogo tra Gesù e Nicodemo si conclude con il riferimento a Mosè e al serpente al cui centro c'è di nuovo il richiamo a "l'alto". Il verbo "innalzare" è fortemente evocativo. Secondo Nm 21,9 il serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto guariva coloro che rivolgevano lo sguardo verso di esso (cf anche Sap 16,5-7). Gesù lo utilizza per indicare di quale morte egli deve morire, ma anche che la sua morte è una glorificazione perché, come dirà più avanti (cf 12,32s), quando sarà innalzato da terra attirerà tutti a sé. Per Giovanni, la volontà salvifica di Dio nei confronti del mondo è totale: nel passato di Israele, al tempo di Gesù e anche ora, Dio ha amato tanto il mondo che ha dato il suo Figlio perché in questo mondo vivesse e per questo mondo fosse disposto a morire. Non soltanto per coloro che lo meritano, non soltanto per i buoni. Dio ha amato tutte le persone umane, di ogni tempo, di tutte le nazioni, di tutte le culture, di tutti i popoli perché ha inviato suo figlio non per condannare ed escludere, ma per salvare.
C'è però un'altra faccia della medaglia. Le parole di Gesù sono consolatorie ma, nello stesso tempo, sferzanti, e vanno prese in tutta la loro ambivalenza: Dio non giudica il mondo, è vero, ma pronuncia sul mondo un giudizio definitivo. La "condanna" sta nel fatto stesso di non credere che Gesù sia il Figlio di Dio unigenito e, di conseguenza, non poter partecipare alla vita che non muore. Il grande mistero dell'incredulità è uno dei temi teologici lungo i quali si snoda tutto il quarto vangelo. Esso è paragonabile per Giovanni al dualismo conflittivo che contrappone luce e tenebre. Perché è stato possibile ed è possibile che alcuni non credano? Si può credere in Dio e rifiutare di credere nel suo Figlio? Giovanni tenta qui di abbozzare una risposta: chi si sottrae alla luce ha qualcosa da nascondere e quelli che non hanno voluto e non vogliono credere in Gesù non vogliono venire alla luce, perché non vogliono manifestarsi. Le tenebre sono la loro copertura. Come per Gerusalemme, c'è una dimensione misteriosa e dolente che accompagna la vita, e l'accompagnerà fino alla fine. È il vincolo che lega allegria e tristezza, Quaresima e Pasqua, pericolo e speranza, digiuno e banchetto.
VITA PASTORALE N. 3/2012
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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