Uscire dal recinto per incontrare l'uomo



Il diaconato in Italia n° 168
(maggio/giugno 2011)

LE INTERVISTE


Uscire dal recinto per incontrare l'uomo
di Vincenzo Testa




Continuano le nostre interviste: storie di vite vissute custodendo il mistero con grande audacia: A colloquio con Luigi Vidoni diacono della diocesi di Frascati.


D. Che ne diresti di presentarti?

R. Mi chiamo Luigi Vidoni, ho 65 anni. Di origine friulana, dal 1974 ho abitato a Trieste, dove mi sono sposato con Chiara. Abbiamo due figli, Matteo e Micol.
Sono stato ordinato diacono il 20 aprile del 1991, dopo cinque anni di preparazione specifica, nella mia parrocchia di residenza a Trieste. Prestavo infatti il mio servizio pastorale già da un paio di anni in un'altra parrocchia, attigua alla mia, per desiderio del vescovo e del parroco. Ho svolto poi, in questi primi anni di ministero, il mio servizio in altre parrocchie, dove il vescovo mi aveva destinato, anche per compiti particolari.
In quel periodo, l'impegno pastorale a livello diocesano ha avuto un particolare rilievo nella commissione diocesana per la pastorale familiare, dove ero presente con mia moglie. In quella veste (e contemporaneamente perché diacono) abbiamo partecipato al Convegno Nazionale di Palermo del 1995. A metà del 1996 risale il nostro trasferimento nel Lazio.
A questo punto devo però fare una premessa: non posso tralasciare di parlare di un fatto importante della mia giovinezza, che poi ha influito su tutta la mia vita e sulle scelte future: l'incontro cioè con il Movimento dei Focolari avvenuto più di quarant'anni fa. In esso abbiamo maturato, come famiglia, oltre che personalmente, il nostro essere chiesa e gli impegni che in essa abbiamo assunto.
Nel 1996, dopo un congruo periodo di discernimento, abbiamo aderito alla richiesta che il Centro Sacerdotale del Movimento dei Focolari ci rivolgeva per un servizio a favore dei sacerdoti e dei diaconi diocesani che aderiscono al Movimento. Col consenso del vescovo di allora ed avendo avuto il trasferimento lavorativo alla Direzione Centrale delle Poste a Roma (ero infatti dipendente delle Poste), mi sono trasferito con tutta la famiglia, prendendo la residenza nella diocesi dei Frascati. Oltre agli impegni presso il Centro Sacerdotale, svolgo il mio servizio pastorale nella diocesi di Frascati, collaborando anche con la vicina diocesi di Velletri per quanto riguarda la formazione dei diaconi.


D. Come nasce la tua vocazione. Sostegni, incoraggiamenti, difficoltà, speranze e realtà?

R. La mia chiamata al diaconato nasce da molto lontano… Non tanto come vocazione specifica, che è venuta in età adulta, quanto piuttosto come desiderio e forte attrattiva a dare la mia vita per la Chiesa. In particolare fin da giovane mi aveva sempre affascinato una visione di chiesa giovane e bella che non si identificava solo con le persone che frequentavano la parrocchia, ma abbracciava tutti indistintamente, anche quelli che non mettevano piede in chiesa.
Solo una visione di chiesa che fosse come una famiglia mi dava la sensazione che si potesse arrivare a tutti, rispettando ognuno, perché a tutti si poteva giungere con l'amore. La dinamica della vita di famiglia, lo stile di famiglia avrebbe dovuto essere lo stile della comunità ecclesiale. Esperienze diverse poi di impegno ecclesiale e di volontariato, anche lontano dalla mia città, mi hanno formato a questa visione di chiesa che andava oltre il mio particolare.
Ma c'è stata una circostanza nella quale ho sentito chiaramente la chiamata al diaconato. Siamo nella metà degli anni 80. Con la mia famiglia abbiamo trascorso le vacanze estive in montagna. Ogni sera andavamo a messa nella chiesetta del paese che ci ospitava. Il parroco riuniva attorno all'altare diversi ragazzi e ragazze, mentre la gente si sistemava nella navata e tutti partecipavano alla celebrazione eucaristica con molta semplicità.
Vedevo il sacerdote come un padre che raccoglieva attorno alla mensa la sua famiglia. E questo ambiente mi colpiva, mentre una forza interiore suscitava in me il desiderio di collaborare alla missione del sacerdote. Fu una sensazione forte, commovente, coinvolgente. «Ecco – mi dissi – a questo mi sento chiamato: cooperare nel generare la comunità cristiana insieme a quel prete, quasi ad essere un tutt'uno con lui». Sembrava un sogno… e non capivo come si sarebbe potuto realizzare. Solo più tardi l'ho capito!
In questo contesto è maturata la mia vocazione al diaconato, che comportava il coinvolgimento di mia moglie Chiara e dei nostri due figli, senza forzature. Partecipando ai miei questa realtà e vivendola con loro, venivo a capire sempre di più la vocazione del diacono, il suo aspetto più bello e più vero, che va oltre le mansioni prettamente ministeriali.
Man mano comprendevo la bellezza della figura del diacono: egli, pur partecipando alla grazia del ministero, non ha "poteri" come quelli del presbitero e del vescovo. In fondo quasi tutto ciò che egli fa, lo può fare anche un laico... Egli però è chiamato in modo speciale ad essere "per" gli altri.
Questo essere "per" gli altri, essendo anche nella vita concreta "come" gli altri, mi ha fatto scoprire col tempo che il mio ministero diaconale non si qualifica per quello che faccio, quanto per quello che sono: nella misura in cui "sono" (diacono – amore concreto – servizio puro) gli altri "sono", e non solo singolarmente, ma anche come comunità. C'è uno slogan che mi porto dentro sempre: "Io sono gli altri!", nel senso che il mio "non essere" per amore, fa "essere" gli altri come comunità: la dinamica del diacono è l'amore che si fa uno con l'altro, facendo sì che gli altri prendano coscienza (e quindi "siano") di essere comunità, chiesa; dato che la carità (di cui il diacono ne è segno sacramentale in modo specifico), se non porta all'unità, è "cembalo risonante".
Da qui la convinzione profonda (che coinvolge tutta la mia vita spirituale e pastorale) che il diacono è tale non tanto per quello che fa, ma per quello che è! L'icona di questa "trasformazione" è Gesù che, nel suo abbandono, muore e risorge: muore Lui e risorgiamo noi, con Lui ed in Lui: noi in Lui, noi-Lui, unico Cristo. Così è l'esistenza di chi dà la vita per gli altri, per quella porzione di chiesa che gli è stata affidata. Così è del diacono, segno sacramentale di "Colui che è venuto per servire e dare la vita".
Ritorna alla mente e si imprime sempre più nel cuore quanto ho percepito nel mio intimo al termine della celebrazione dell'ordinazione, quando dissi al mio vescovo, guardando la folla che stipava la chiesa: «Oggi ho capito la grandezza del mio battesimo, di quel battesimo che mi accomuna a tutti e mi fa loro servitore. Se grande è la grazia che ho ricevuto, ancor più grande è la grazia di essere chiesa, comunità che ama e che serve, ché senza di lei, io non avrei senso». Più avanti mi si fece più chiaro che quella affermazione, fatta di getto e sotto l'emozione del momento, raccoglieva in sé una grande verità: se nella mia vita saprò corrispondere alla grazia e sarò quel "nulla d'amore" a cui la "diaconia" mi porta ad essere, allora potrò essere tramite di grazia e far crescere la comunità nell'unico amore di Cristo, nella vocazione della chiesa ad essere segno di quell'amore per il mondo. Il mio "perdermi", per amore, nei fratelli fa di loro una comunità viva, diaconia in atto, nella reciprocità e verso il mondo in cui è immersa.
L'esperienza poi mi ha confermato che nella comunità nulla ha veramente frutto, se la mia azione diaconale non è fatta in piena unità di intenti col sacerdote. Ogni azione rivendicativa del diacono, anche se alle volte può sembrare legittima per la marginalità in cui si messi ad operare, va a detrimento della stessa azione pastorale.


D. Come vivi il tuo essere diacono in famiglia e quanto è importante avere accanto una moglie consapevole e partecipe del ministero del marito?

R. Lascerei anzitutto la parola a mia moglie. In occasione del 20° anniversario della mia ordinazione diaconale ho chiesto a Chiara di esprimere cos'è per lei questa "avventura" (v. riquadro in fondo alla risposta).

Pensando al progetto che Dio ha sulla famiglia, alla sua unità originale, al monito di Gesù che "l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto" (Mc 10,9), mi viene spontaneo guardare alla mia, che, pur essendo una famiglia come tutte le altre, ha ricevuto anche il dono del ministero diaconale. Il segreto è la preziosità, come dice Chiara, dell'essere una "cosa sola" nella nostra naturale e spirituale diversità.
Alle volte mi viene chiesto come faccio a conciliare il mio essere sposo e padre con il mio essere diacono: non è una questione di tempo da suddividere tra famiglia e chiesa, quanto piuttosto un essere, nel momento presente, la stessa realtà, sia nel pubblico che nel privato.
Fin da quando ci siamo conosciuti, mia moglie ed io, abbiamo sentito la necessità di comunicarci sempre quello che ci veniva in cuore, con molta libertà, in modo da aiutarci reciprocamente anche a limare certi "spigoli" che ciascuno ha. Abbiamo avuto la fortuna di capire da subito che il nostro "essere insieme" nasceva e si sviluppava a partire dal nostro personale rapporto con Dio: questo venirci incontro è un aiutarci a scegliere meglio e prima di tutto Dio.
Ci confrontiamo quotidianamente, perché la forza della nostra unità nasce dalla comunione con la Parola vissuta e comunicata, nella gioia e nel dolore che ogni famiglia sperimenta, nelle delusioni che la vocazione ecclesiale comporta e nella gratitudine per aver ricevuto un dono così grande. Solo in questo contesto si può comprendere nella sua pienezza il consenso che viene richiesto alla moglie per l'ordinazione diaconale del marito.
Molto spesso viene chiesto a mia moglie Chiara cosa significhi essere moglie di un diacono. Lei risponde sempre, molto semplicemente, che significa essere innanzitutto una moglie, cercando di essere responsabili del sacramento che Dio, prima ancora che nel diaconato, ci ha dato con il matrimonio. Significa essere testimoni dell'amore che Dio ha per la nostra famiglia.
Ricordo ancora la sorpresa e lo stupore di Chiara quando le accennai per la prima volta, dopo quell'esperienza forte in montagna, di quanto avevo in cuore. Lei racconta di un sentimento di forte paura, scaturito all'improvviso, mentre stavo parlando; una paura profonda, acuta, come se in quel momento le venisse chiesto se fosse pronta a dare la vita, a darla per qualcosa che neanche conosceva. Fu una frazione di secondi… Ma la cosa di cui stavamo parlando, di una visione di chiesa bella ed attuale e che ci coinvolgeva totalmente, era troppo grande e bella per dire di no: così – lei racconta – "Ho detto di sì prima a Dio e poi a Luigi". Fu al momento dell'ordinazione, racconta Chiara, che lei comprese in modo nuovo il significato del matrimonio come sacramento: essere visti da Dio "due", però "uno", tanto che si avvertiva di non aver più senso l'essere dell'uno senza l'altra.
All'inizio coinvolgere i figli in questa avventura non fu particolarmente difficile, anche per la loro giovane età. Per Micol, la più piccola, non ci sono stati particolari problemi, forse per il suo carattere positivo che vede in tutto il bello. Con Matteo è stato un po' più difficile. Ma da subito abbiamo cercato di essere tutti coinvolti in questa "avventura", cercando di rispettare le diverse sensibilità.
Per l'esperienza acquisita, constato con sempre maggior convinzione quanto le persone si accorgano se nella mia vita di diacono, nelle parole che dico, nelle omelie che faccio, è presente la persona di mia moglie; se la vita evangelica che cerco di trasmettere non è solo mia, ma è frutto della nostra unità.
È un continuo sperimentare la bellezza di questa famiglia, che sentiamo speciale, perché, famiglia come tutte le altre, è al servizio non solo della comunità in cui si è presenti, ma anche del mondo sacerdotale per il legame profondo che ha con il sacramento dell'ordine.


Lettera di Chiara

Tornare con la mente a quella sera del 1991 non è uno sforzo della memoria, ma la gioia di rivedere il fiorire di un disegno di Dio per la nostra realtà familiare. Nel momento dell'imposizione delle mani del vescovo su Luigi la mia preghiera che saliva al Padre è stata: "Tutto quello che non capisco ancora, tutto quello che mi rende incapace di fare quello che dovrò fare, Tu lo sai, e solo Tu indirizzami in modo che io possa riuscire a fare contento Te e Luigi". Ritornare con la mente a quei momenti e alla strada di vita fatta sino ad ora, mi fa vedere il mio e nostro disegno nel pensiero di Dio da sempre. Ancora diciottenne, quando le amicizie che avevo, belle, hanno cominciato a dissolversi per il naturale evolversi del vivere umano, mi sono ritrovata a chiedere a Dio cosa dovevo fare della mia vita: "Sento la vocazione alla famiglia", Gli ho detto. "Ma solo se mi dai la possibilità di avere una "bella" famiglia, perché Tu sai cosa vuol dire "bella" mentre io no; ma se il Tuo desiderio su di me è un altro, fammi avere una fede così solida da non desiderare niente di diverso". Eccomi qui a ringraziare Dio di essere sempre presente nella mia vita. Certamente fatta di alti e bassi; di slanci e di battute d'arresto, ma pur sempre riconoscente per il Suo amore per me. Nella richiesta di avere una bella famiglia non era contemplata la realtà diaconale, perché non sapevo ancora cosa fosse; ma Dio sì!
La moglie del diacono: in questi anni ho sentito varie versioni riguardo all'identificarne la figura. C'è chi la pensa un limite alla libertà d'azione del marito, c'è chi la paragona alla moglie di un medico o di un militare, perché uomini sempre pronti in prima linea e sempre fuori casa; c'è chi la vorrebbe diaconessa così da togliere, una volta per tutte, il problema. Mi guardo e vedo una donna che, partecipando intimamente alla chiamata del marito, decide "liberamente" e "totalitariamente", con il suo Sì a Dio, di seguire la volontà di Dio sul marito, sapendo di "perderlo", nel senso umano del termine. Iniziano ad esserci delle priorità nelle decisioni e bisogna essere pronte a posporre, ma non per partito preso.
È una donna che decide di anteporre le realtà del marito ai propri desideri sicura di ricevere un di più, perché è un ridonare a Dio il dono ricevuto, ma con l'aggiunta di altre vite: la mia e quella dei nostri figli. Però c'è una cosa che sento dover essere sempre presente nella mia vita: la realtà che Dio mi ha offerto come dono va costantemente alimentata da un rapporto personale, solido, d'anima, tra moglie e marito che non dovrebbe mai assopirsi, come invece talvolta accade, pena lo sterile attivismo del marito e l'insoddisfazione e incomprensione sempre più profonda della moglie. Ho sempre sentito di non dover accettare passivamente una decisione, anche santa, di mio marito, proprio per il fatto che con il matrimonio la realtà è quella di due che diventano uno e in questa unità prende forma e si concretizza la realtà del diaconato.
Alle volte mi sembra un controsenso che venga chiesto il consenso della moglie per il raggiungimento dell'ordinazione al diaconato e una volta ricevuto il sacramento la figura della moglie sia esteriormente quasi sopportata, come se quell'accettazione fosse una semplice formalità: se così fosse, sarebbe svuotata del suo unico e vero significato.
Perciò la luce non va nascosta, va alimentata, va fortificata soprattutto nell'essere. Mi viene alla mente la figura di Maria. Come deve essersi sentita giudicata, nella società di allora – ma per certi versi non molto distante dall'odierna –, nel momento in qui non era più possibile nascondere la gravidanza: sguardi indiscreti, bisbigli, atteggiamenti scortesi. Ma la vedo nel suo incedere fiero, cosciente del suo sì a Dio, mai distolta dal chiasso circostante, il suo seguire passo passo Gesù fino a ritrovarsi con Lui sotto la croce e rivederlo poi risorto. Ecco a chi deve guardare la moglie del diacono: a Maria. Alla sua forza, ma anche all'accettazione di qualcosa che non c'era nei suoi pensieri: "com'è possibile? Non conosco uomo" o "donna, ecco tuo figlio" o "Figlio, perché ci hai fatto questo?". All'austerità di Maria, ma anche alla sua previdenza "non hanno più vino", alla sua fedeltà a quel sì iniziale!

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D. Dove svolgi il tuo ministero e quale il servizio che ti è stato affidato?

R. Come detto all'inizio, continuo a svolgere il mio servizio a favore dei sacerdoti e dei diaconi diocesani che aderiscono alla spiritualità del Movimento dei Focolari presso il Centro sacerdotale, che è ubicato nel territorio della diocesi di Frascati.
È un servizio che mi vede a contatto con sacerdoti e diaconi di vari paesi, di esperienze anche molto diverse dalle nostre, che mi arricchiscono e mi fanno sperimentare quotidianamente quanto sia fondamentale l'unità con il mondo sacerdotale.
Contemporaneamente svolgo il mio ministero nella stessa diocesi dove risiedo, secondo le direttive del vescovo, mons. Martinelli, soprattutto ora che sono in pensione. Dopo un periodo di alcuni anni in una parrocchia, il vescovo ha ritenuto di assegnarmi, collaborando con il sacerdote cappellano, la cura pastorale presso una casa di soggiorno per anziani, dove c'è anche una cappella discretamente capiente.
Gli ospiti, essendo tutti autosufficienti, hanno possibilità di muoversi e di organizzare come meglio credono la loro giornata. Non sono tanto le varie attività da organizzare (che già ci sono), quanto piuttosto una opportunità unica di instaurare rapporti sinceri e profondi con gli ospiti, che sono poco più di un centinaio.
Un signore mi diceva: «Non abbiamo tanto bisogno di sentir parlare, quanto di essere ascoltati». Ed un altro: «Ad una certa età capita di affrontare problemi esistenziali non indifferenti: occorre avere una persona di fiducia con cui dialogare…».
Uno dei problemi più seri a quell'età è la solitudine e la tendenza a chiudersi, oltre al disagio, che anche inconsciamente percepiscono, per situazioni familiari non risolte. Un servizio prezioso è quello di fare in modo che questi rapporti non siano solo a senso unico, personali, ma che si sviluppino anche tra gli ospiti, in modo da creare tra tutti un clima di famiglia. A tutto questo, che ritengo la parte più importante, fa da supporto l'azione più prettamente religiosa, nella preparazione alla messa o alle varie celebrazioni, alla catechesi per chi lo desideri, ecc. Non tutti sono praticanti (forse la maggioranza), ma le conversazioni più interessanti sono proprio con quelli che non mettono piede in chiesa. E il luogo di incontro è la sala del bar o quella di lettura.
Non manco di fare una visita all'ospedale se qualche ospite vi è ricoverato, mantenendo così un rapporto non funzionale, che rimane in quella confidenza e umanità che ci rende liberi di accoglierci nel rispetto reciproco. È sintomatica l'esperienza fatta con un ospite col quale fin dall'inizio ho cercato di incontrarmi, vista la sua disponibilità, facendogli anche vista ai vari ospedali in cui era stato ricoverato. Un giorno mi dice, in presenza di altri: «Sei riuscito a farmi entrare in una chiesa dopo cinquant'anni!». Non lo avevo mai invitato a nessuna celebrazione.
Le stesse celebrazioni che mi capita di fare in assenza del sacerdote hanno sempre questo timbro: fare famiglia. Così è stato il giorno dell'Epifania, la festa delle "genti lontane", che hanno trovato la possibilità di un incontro, oltre la semplice amicizia; un incontro che apre la possibilità della riconciliazione, prima con se stessi, poi con chi ci sta accanto.
Ho capito meglio la mia presenza in quell'ambiente: essere come una stella per le persone che incontro, come molti di loro sono per me. Ed offrirci i doni che il cuore, nella semplicità, ci suggerisce. Cuori che si aprono, sofferenze che riemergono col desiderio di essere risanate, semplice gioia di poter condividere quanto scopriamo di intimamente bello, nella vita che ancora ci rimane. In questo clima aumenta il numero, soprattutto di persone che non hanno un preciso riferimento religioso, di chi desidera essere almeno un po' sfiorato da quella Luce che ci viene donata.
Contemporaneamente il vescovo mi ha chiesto di affiancarlo nel gruppo degli aspiranti diaconi della diocesi di Frascati, costituitosi da circa un anno.
Si tratta di avviare un'esperienza nuova, data la mancanza di una recente esperienza diaconale in diocesi, con una altrettanto nuova sensibilizzazione del clero e delle comunità parrocchiali. Personalmente ritengo che la scommessa futura di questo ministero in diocesi sia da giocare tutta, non solo su una specifica preparazione dottrinale e pastorale, ma principalmente su una solida formazione spirituale personale e comunitaria.


D. Quale è la tua opinione sullo sviluppo del ministero diaconale da dopo il Concilio ad oggi?

R. Più che dare una mia valutazione personale sullo sviluppo del diaconato (basta leggere gli articoli della Rivista per rendersene conto di cosa sia il diaconato nella storia postconciliare, delle sue luci e delle sue ombre), penso che si debba guardare con quale "spirito" è stato attuato quanto il Concilio ha espresso. Se la visione "profetica" che sottende ad ogni azione dello Spirito ha avuto il sopravvento nel rinnovamento della Chiesa ed è stata la forza portante anche del diaconato, allora si sono visti sviluppi positivi, anche se non esaustivi, come è stato per i primi tempi.
Quando invece ha avuto il sopravvento una visione "funzionale" del ministero diaconale, allora le cose sono andate a rilento, non supportate da una visione a largo respiro, e si è ricaduti in una situazione di stasi che ha in certo senso tarpato le ali e tolto il respiro. La conseguenza è stata una riduzione, in alcune diocesi, delle ordinazioni ed uno stato di insoddisfazione nei diaconi, con un conseguente adagiarsi su ordinari incarichi parrocchiali di supplenza.
Ritengo che il diaconato abbia un fruttuoso futuro solamente in una genuina esperienza di chiesa di comunione. È lì che io vedo collocato il futuro del diaconato, in una "collegialità affettiva ed effettiva" tra diaconi e sacerdoti, col Vescovo, segno di una costruttiva corresponsabilità nel servizio a favore della comunità ecclesiale.
La grazia del diaconato, ripristinato come forma permanente di ministero dopo parecchi secoli di oblìo, è una delle "novità" che lo Spirito ha elargito alla Chiesa del nostro tempo. È un "vino nuovo" che ci è stato offerto! Alle volte mi chiedo perché questo "nuovo" stenti ad essere non solo accolto, ma compreso. Mi ritorna in mente la verità del vangelo: "Vino nuovo in otri nuovi!". Purtroppo i diaconi esercitano molto spesso il loro ministero con modalità e mentalità in cui non sempre viene in luce quel "nuovo" che il Concilio Vaticano II ha portato nella Chiesa. È un fatto (e penso che ognuno ne faccia concreta esperienza): "Nessuno che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!".
È più facile restare ben saldi nell'esistente già ben sperimentato, nelle pratiche religiose consolidate, che non affidarsi a quella novità dello Spirito che ci spinge ad "uscire" dal recinto per andare incontro all'umanità che non desidera altro che sperimentare nella comunità dei discepoli l'amore di Dio per noi.
Le esperienze che si tenta di porre in atto nelle varie diocesi, lodevoli per molti versi, non soddisfano, a mio parere, la spinta profonda e profetica che il ministero diaconale è chiamato a portare nella chiesa oggi. Non è una spartizione ed organizzazione di incarichi pastorali o una emergenza di supplenza, che pur si deve fare, ma vivere, assieme ai preti e a tutta la comunità, una comunione che renda visibile non una struttura ben organizzata, ma la possibilità dell'esperienza della presenza del Signore Risorto vivo ed operante nella comunità. Sono convinto che la comunione è una esperienza di vita che crea mentalità, non viene data a priori, dall'alto...
Il diaconato troverà un'attenzione ed un'attuazione consone solamente in una vita di chiesa in cui prima del dato istituzionale viene la vita di comunione, anche all'interno dell'istituzione. Le "novità" evangeliche non cadono mai dall'alto... nascono dalla base, creano un consenso, una stima, una vita... L'autorità poi, secondo il suo carisma, "ordina" questa vita esistente, dà indirizzi specifici... taglia, "pota perché frutti di più"... la fa propria... e diventa di tutti.


D. Da tempo curi con costanza un blog dal titolo "essere sempre famiglia". È un titolo che sembra già un vero programma di vita. Puoi parlarcene?

R. È semplice. L'amore per il diaconato mi ha spinto a curare questo blog personale come un'occasione particolare per mantenere viva una rete fra diaconi e persone che hanno a cuore il diaconato, per uno scambio di idee e di esperienze: una condivisione di vita per "essere sempre più famiglia".
Ad esso è anche collegato un sito personale di testi e documenti trattati nel blog e riguardanti il diaconato o di interesse comune.
Il link del blog: http://esseresemprefamiglia.blogspot.com
il link del sito di testi: http://esf-testi.blogspot.com

Cerco di essere fedele a questo impegno, ovviamente secondo i limiti di tempo disponibile, soprattutto perché la cosa è seria!


D. Hai un sogno che vorresti si avverasse per il ministero diaconale nella Chiesa?

R. Veder realizzato pienamente ciò di cui abbiamo parlato!



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