Sulla comunità parrocchiale



Il diaconato in Italia n° 168
(maggio/giugno 2011)

FOCUS


Sulla comunità parrocchiale
di Primo Mazzolari


«C'è nel popolo una resistenza silenziosa, un'apatia ferrigna...». Queste riflessioni del 1936 ci colgono impreparati: quali risposte oggi siamo in grado di dare alla questione "parrocchia"? L'invito a rimboccarsi le maniche è pressante e - necessariamente - urgente.

Nella parrocchia la chiesa fa casa con l'uomo: la sua missione gerarchica dottrinale carismatica vi s'inizia e vi si fissa, e l'uomo, l'uomo concreto - nome, volto, cuore, fragilità e destino eterno - s'innesta e rifluisce nel corpo mistico del Cristo, di cui segna gli aumenti temporali ed eterni. La parrocchia è la miniera, il grezzo. La grazia vi tesse la prima trama gerarchica e vi opera la prima infusione di vita, che deve salire a unità senza fratture e saldarsi alla realtà senza limiti. Le crisi più paurose per l'unità e santità della chiesa nacquero e rifluirono nella parrocchia, come ogni riforma buona e salutare vi trovò gli inizi e le migliori fedeltà. Attraverso di essa fu ed è possibile utilizzare e incorporare gli elementi sani della tradizione, della coltura, della nazione, della razza e ricostruire la cristianità.
Per queste ragioni, che non sono né le uniche né le principali, lo studio della parrocchia non può essere soltanto illustrativo, peggio se passatista con rimpianti su quello che non è più, che non può tornare, che è bene non ritorni. Né facciamo spreco di poesia. La parrocchia ha la sua poesia come poche altre realtà sociali. Viene subito dopo la famiglia, prima del comune. Ma per avvertirne e gustarne la bellezza ci vuoi l'anima d'un Péguy, vale a dire un'incantevole semplicità di fede e di sentimento. La maggior parte dei parrocchiani non ci arriva né vi si possono portare con rievocazioni di dubbio lirismo. Il bello non è sempre a portata di mano, né l'animo ognor trasparente e lucido. Inoltre, nella parrocchia - quella vera, ben diversa da quella dei libri e dei predicatori - non c'è tutto di bello. Vi sono cose viste, udite e patite che colpiscono dolorosamente e disamorano anche i parrocchiani meglio temprati: arresti, crisi, decadenze che non possono esser vinte né da intelligenti rievocazioni né da una fede ordinaria. La stessa esigenza spirituale dei migliori parrocchiani può indurre in tentazione, poiché - lo dico una volta per sempre - la critica, agli uomini più che alle istituzioni, non vuoi dire comunemente animo indisposto o avverso. Chi vuol bene, starei per dire solo chi vuoi bene, ha una vera e sofferente sensibilità. perché egli porta nello sguardo e nel cuore l'immagine della parrocchia ideale. Gli altri, i parrocchiani "del recinto", i semplici battezzati non sanno neppure d'avere una chiesa. Il metodo che finora prevale nelle pubblicazioni e negli schemi proposti per le settimane di studio sulla parrocchia - metodo lodevole e savio per diverse ragioni - non scalfisce l'indifferenza né attenua il distacco o l'ostilità preconcetta o dormiente della massa dei parrocchiani. Chi li conosce ha l'impressione ch'essi camminino sovra un piano diversissimo dal nostro con idee, pregiudizi, abitudini senz'interferenza con quanto ci sforziamo d'esporre e che a buon diritto vantiamo. Inutile l'indignarci: inutile lo stesso perseverare in uno sforzo che non ha presa. I fatti hanno una loro logica, che non si vince né con ragionamenti astratti né con querimonie. L'uomo medio, il parrocchiano comune, disamorato, indifferente o avverso, non lo s'interessa con rievocazioni e rimpianti. Con un po' di rumore si potrà anche raccoglierlo intorno al tavolo delle nostre settimane parrocchiali in discreto numero. Ma un conto è discorrere di cose belle e far lamenti, un conto destare un bisogno, rianimare un vincolo, saldare un problema o un fatto nella vita quotidiana del nostro popolo. Si può parlare eloquentemente della parrocchia senza riuscire a portarla, come realtà viva e operante, all'incrocio della strada ordinaria dei parrocchiani di oggi.
La chiesa bella, le funzioni decorose, le campane, le congregazioni, le associazioni, i ritiri, un clero numeroso e volonteroso ecc. sono mezzi indispensabili: eppure - lo si constata con pena ogni giorno - non bastano. Si ha quasi l'impressione di armi a tiro corto, che non raggiungono lo scopo. Con tanta artiglieria e soldati disposti a farsi ammazzare sulle posizioni, non s'arriva al di là delle nostre linee. E allora, credendo di rimediarvi con la quantità, si moltiplicano le batterie, mentre potrebbe essere questione di portare avanti, in prima linea. Il lavoro parrocchiale è divenuto un magnifico facchinaggio con arsenale, ove nulla manca, e con intorno una cinta che cresce ad ogni insuccesso e trasforma la parrocchia in fortilizio.
Chi dice che il nostro armamento è vecchio, sbaglia. Siamo aggiornatissimi. Statistiche alla mano come gli altri: raduni, congressi, parate come gli altri: circolari, fogli d'ordine, giornali o roba stampata come gli altri: decorazioni, avanzamenti, promozioni come gli altri. E si lavora e ci si logora, clero e laicato fedele. Ed ogni giorno una pena senza nome, che si riesce a scordare un attimo, allorquando un avvenimento, prodotto frequente di un'artificiosa favorevole concomitanza, ci dà l'illusione che qualcosa nella parrocchia si rianimi. Poi, si ripiomba nell'oscurità e nella solitudine, le quali danno spesso al nostro lavoro quel tono amaro che si sfoga in lamenti e in rimproveri oppure lo rende totalmente meccanico e disamorato. Il povero prete della parrocchia, non quello di parata, quello di sentinella ai piccoli posti, la santa fanteria della chiesa, ha spesso l'impressione che la sua fatica non prenda. Nessun comprendimento, nessuna risposta, nessuna reazione più. La distanza aumenta: la solitudine intorno alla chiesa parrocchiale e alla canonica, nonostante il moltiplicarsi delle iniziative, aumenta. C'è nel popolo una resistenza silenziosa, un'apatia ferrigna che disarma il parroco più agguerrito. Di quanta fede egli ha bisogno per resistere alla tentazione di scappare in convento! Se il fatto è così - chi ne dubita senta le confidenze di tanti poveri e meravigliosi parroci - il problema della parrocchia prende un aspetto gravissimo. Vien quasi da pensare che la parrocchia possa essere superata o come funzione o come istituzione o come metodo. Non sgomentiamoci né chiudiamo gli occhi: ragioniamo ad occhi aperti e pacatamente. Per fede e per esperienza, la parrocchia in quanto funzione del fatto religioso in genere e del cattolicismo in concreto, non è superata né superabile come non è superata né superabile la religione. Non è qui il luogo di darne le prove. So però di affermare una cosa che trova larghi consensi oltre la cerchia dei credenti, poiché molto pochi e di scarso valore sono coloro che non avvertono l'indistruttibilità del sentimento e del fatto religioso. La parrocchia, benché d'origine ecclesiastica, quindi mutevole e sostituibile, non è neppur superata come istituzione. Anche oggi essa risponde, meglio di ogni altra, alle necessità pratiche della vita religiosa. Lo studio va quindi portato sul metodo, distinguendo bene il metodo che organizza e il metodo che fa vivere la parrocchia.
L'organizzazione è un momento necessario ma conseguente e in rapporto al mantenimento e alla crescita della vita della parrocchia. La vita precede l'organizzazione, la richiede, l'impone, la presiede, si serve di essa: ma l'organizzazione non sostituisce la vita. La parrocchia dev'essere innanzi tutto qualche cosa di vivo, posta in condizioni di vivere nel mondo di oggi: poi, organizzata in funzione di questa vita. Riassumo per dovere di chiarezza. Cosa viva, sopra un piano vitale col mondo presente, organizzata in funzione del compito che deve svolgere su questo piano vitale. La continuità della parrocchia come istituzione e funzione è un dato provvidenziale. L'abbiamo ricevuto in deposito e c'incombe la responsabilità di mantenere la parrocchia vivente, sul piano della vita attuale e d'organizzarla a questo scopo. In certe epoche, come nella nostra, accade che molti, supponendo la parrocchia adeguata ai tempi, passino subito all'organizzazione, senza domandarsi se è viva e vitale. L'argomento, delicato e urgentissimo, domanda un chiarimento storico.
Un tempo la parrocchia era tutta la vita della comunità. Nel processo naturale e necessario di differenziazione durato vari secoli - corrispondente al processo inverso di assimilazione di funzioni non religiose durato pure dei secoli - la parrocchia vide staccarsi a uno a uno parecchi di questi ministeri o funzioni, i quali erano ad essa legati e da essa esercitati direttamente benché non essenziali alla sua missione. L'autonomia, conquistata a fatica e non senza contrasti dalla comunità, non vuoi dire diminuzione o attentato al prestigio spirituale della parrocchia. È un fatto normale, quindi cosa buona. La parrocchia aveva assunto l'esercizio diretto delle principali funzioni sociali per una necessità storica, essendo le altre istituzioni ancora incapaci di esercitarle o così decadute da non dar più garanzia. Essa compiva una carità, ma si preparava un pericolo. Certe decadenze della chiesa non si spiegano altrimenti. Il sacerdote avrebbe dovuto essere un santo per evitare qualsiasi confusione e qualsiasi inquinamento del temporale su lo spirituale. Il clericalismo, nel senso peggiorativo del termine, cioè la confusione e la subordinazione dello spirituale e del religioso a fini temporali, nacque dalla complessità delle funzioni che la storia affidò alla chiesa e che la chiesa accettò sempre a malincuore. Che nei secoli codesti compiti secondari si sian quasi connaturati coi principali così da non poterli concepire disgiunti, è un fenomeno facile a comprendersi.
Gli uomini s'abituano presto al comando e trovano comodo reggere con mani proprie invece d'imprestare l'anima o l'inspirazione a chi dovrebbe fare. Ma quello che era necessariamente temporaneo ed eccezionale non poteva né doveva durare: ne avrebbero sofferto la parrocchia e la comunità civile. Ma poiché nessuno rinuncia spontaneamente a posizioni di dominio acquisite per necessità e mantenute a lungo per il bene comune, il processo di liberazione o di maggiorità del civile dall'ecclesiastico s'è svolto con vicende irte di scontri e d'incomprensioni dolorose e fatali. La parrocchia di fronte a una comunità in continuo sviluppo si dimostrò ogni giorno più insufficiente a certi compiti culturali assistenziali economici e sociali. La società civile, mentre prendeva coscienza attraverso i vari reggimenti politici della propria forza misurando l'insufficienza della tutela, aspirava a buon diritto alla propria autonomia. Donde un malessere e un dissapore tra le forze nuove e la chiesa, tra lo spirito moderno e la religione, tra la parrocchia e la comunità, che si veniva organizzando fatalmente con carattere d'opposizione quasi irrisolvibile [...].
Il laicismo - pensiero e vita staccati da ogni senso religioso - può essere superato soltanto da un audace laicato cattolico, al quale spetta, come compito principale e urgente, di ricreare cristianamente la vita della parrocchia senza portarla fuori dalla realtà e senza imporle delle mutilazioni in ciò ch'essa possiede di buono, di vero, di grande e di bello. Bisogna ritrovare il coraggio di porsi in concreto i veri problemi dell'apostolato parrocchiale. Molti temono che la discussione prenda la mano all'azione. In certi spiriti superficiali purtroppo è possibile. Ma nei cuori profondi che vivono con pura passione questa grande ora cristiana (cuori che sentono in tal maniera sono legioni dentro e ai margini della chiesa) la discussione, anche se vivace, è sempre una protesta d'amore e un documento di vita.


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