Come evangelizzare il nostro tempo?



Il diaconato in Italia n° 168
(maggio/giugno 2011)

EDITORIALE


Come evangelizzare il nostro tempo?
di Giuseppe Bellia


Proprio agli inizi degli anni '60 risuonò come salutare provocazione il grido di Madeleine Delbrêl: «Oggi, in un ambiente laico, per vivere da cristiani bisogna evangelizzare. Quando si vive in mezzo a chi non ha fede s'impone una scelta: missione o dimissione cristiana». Insomma o si diventa missionari o si è dimissionari, rinunciando a testimoniare e a consegnare al mondo amato da Dio le ragioni per le quali è possibile sperare ancora.
La sfida della mistica francese, negli anni successivi, fu occasione di vivaci dispute e accese polemiche tra specialisti e non, tra ambienti preconciliari e progressisti, ma sostanzialmente fu accolta da vescovi e chiese, perché incombeva il fenomeno della secolarizzazione selvaggia, spingendo il laicato a compiere un vero cammino di crescita per un coinvolgi mento più maturo e creativo nell'azione, in verità più pastorale che missionaria, delle comunità cristiane.

Da dove viene la nuova evangelizzazione
Oggi la situazione non è più la stessa e dal punto di vista dell'evangelizzazione, come ricordava nel 1990 Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio, si possono distinguere tre diversi contesti. C'è un'attività missionaria della chiesa rivolta a popoli e territori socio-culturali in cui Cristo e il suo vangelo non sono conosciuti, o in cui mancano comunità cristiane abbastanza mature da poter incarnare la fede nel proprio ambiente e annunziarla ad altri gruppi. Ci sono, poi, comunità cristiane «che hanno adeguate e solide strutture ecclesiali, sono ferventi di fede e di vita irradiano la testimonianza del vangelo nel loro ambiente e sentono l'impegno della missione universale». E infine, si legge nell'enciclica, si trova «una situazione intermedia, specie nei paesi di antica cristianità, ma a volte anche nelle chiese più giovani, dove interi gruppi di battezzati hanno perduto il senso vivo della fede, o addirittura non si riconoscono più come membri della chiesa, conducendo un'esistenza lontana da Cristo e dal suo vangelo». In questo caso, conclude il documento pontificio, c'è bisogno di una «nuova evangelizzazione», o meglio di una «rievangelizzazione».
È questa situazione intermedia che sembra al centro dell'attenzione del nostro episcopato, anche se non pochi cambiamenti hanno modificato in modo rilevante la condizione dei soggetti destinatari del mandato missionario della Chiesa. Ci si deve però chiedere se oggi le cose stanno ancora così. In un mondo dove si assiste a un superamento religioso delle secche della secolarizzazione, come raccogliere e fare nostro il mandato del Signore risorto?
Cosa vuoi dire oggi concretamente "evangelizzare"? e nella ferialità del vivere quotidiano che cosa richiede l'essere missionari della buona notizia di Cristo? A queste domande sono state date molte risposte e ormai non c'è piano pastorale o progetto ecclesiale dove non si faccia cenno a propositi e iniziative, alcune veramente sapide e coraggiose, sul tema dell'evangelizzazione. In molte analisi però non sempre si tiene in debito conto la consistenza culturale del mutato contesto sociale e religioso dove l'ateismo ideologico del secolo scorso ha ormai ceduto il passo a un laicismo diffuso, connotato da un pervasivo ateismo pratico. È a questo cambiamento culturale, ancora in corso d'opera, che si deve guardare con rinnovata attenzione per comprendere in questo aereopago globalizzato in cui ormai tutti viviamo, quale annuncio di salvezza, quale parola di speranza offrire ai giovani, ai piccoli e a quanti ricercano giustizia e verità con cuore sincero.

Quale direzione ha oggi la domanda su Dio?
Si deve però ricordare che gli uomini del nostro tempo non sembrano affatto interessati a sapere «se Dio c'è», ma più prosaicamente, e forse più responsabilmente, davanti a tragedie disumane e irreparabili, provocate dall'uomo o dalla natura che sembrano affermare la vanità di ogni esistenza, con Elie Wisel si chiedono «dov'è Dio?». Nel tempo velocizzato e computerizzato in cui viviamo non è in discussione la non esistenza di Dio, quanto piuttosto la sua irrilevanza storica, la superfluità del suo governo cosmico, l'inconsistenza del suo provvido agire nella vita degli uomini. Come aveva già indicato Dietrich Bonhoeffer nelle sue lettere dal carcere, non si ha più bisogno di un deus ex machina che dall'alto sciolga dubbi e risolva problemi. La questione in passato lacerante e spinosa del vivere etsi Deus non daretur, «come se Dio non ci fosse», nella modernità e ancor più nella postmodernità, è diventata un vivere ut si Deus non daretur, «come se» Dio non avesse più titolo a essere il creatore e il reggitore del mondo.
Questa riflessione serve a impostare correttamente la questione vitale per le chiese se per evangelizzare gli uomini del nostro tempo si richiede solo un necessario aggiornamento linguistico, un opportuno adattamento di parametri dottrinali da configurare secondo un apparato concettuale più fruibile e alla moda. Si tratta di conservare un ruolo, di mantenere un proprio ambito d'influenza sempre convinti della superiorità del proprio patrimonio etico, del proprio giudizio morale, oppure ci vuole dell'altro? Nel sentire comune del pensiero laico più diffuso non si rimprovera alle religioni un eccesso di trascendenza, quanto al contrario di dare parole, forme e spiegazioni al mistero e di offrire certezze assolute facendo a meno di quella modestia necessaria a chi ricerca il vero senza la presunzione di poterlo esaurire.

Laicismi e laicità
L'impegno dei laici e non solo del laicismo più affermato negli ultimi decenni non ha puntato a operare solo una legittima distinzione tra potere politico e autorità religiosa, quanto mai necessaria per l'irrompere in un Occidente pluralista della presenza islamica, ma ha perseguito un intento di vero esautoramento della religione da ogni rilevanza morale nella sfera pubblica, ingessando ogni competenza etica delle religioni in ambito istituzionale e sociale. Anche il pensiero laico più tollerante afferma che se è giusto riconoscere alle religioni il diritto di proporre, anche in ambito politico, valori e regole del loro credo, resta però escluso, come a ogni altra posizione mentale o ideale, il diritto o la pretesa di imporre ad altri le proprie credenze o regole, non potendo reclamare come condizioni necessarie per l'esercizio della propria libertà alcun tipo di beneficio e di esenzione dalla critica. In questo modo la laicità, per contenere le pretese di egemonia e le rivendicazioni di privilegio inscritte nella ostentazione di verità normative proprie delle religioni, ha via via assunto una più prevalente dimensione politica e istituzionale che rinchiudevano lo spazio religioso al sentire interiore e dunque privato.

Dove piantare l'albero della fede?
Da qui quel processo in atto di progressiva "de-privatizzazione" dell'esperienza religiosa che ha visto le religioni di tutto il mondo, come scriveva Josè Casanova nel 1994, fare il loro ingresso «nell'arena della contestazione politica non solo per difendere il loro territorio, come hanno fatto in passato, ma anche per partecipare alle lotte la cui posta in gioco è la definizione dei moderni confini fra la sfera pubblica e quella privata, fra il sistema e il mondo vitale, fra la legalità e la moralità, fra l'individuo e la società, fra la famiglia, la società civile e lo stato, fra le nazioni, gli stati, le civiltà e il sistema mondiale». In questo clima, pluralista più che relativista, evangelizzare significa ottenere il riconoscimento di uno spazio per la collocazione del crocifisso negli ambienti pubblici o lottare per far riconoscere le radici cristiane della nostra vecchia Europa? E a che prezzo? Riguardo poi ai cosiddetti principi "non negoziabili", che cosa di più negoziato c'è stato, nel ventennio appena trascorso, di leggi "di principio" cristiane approvate in cambio di atteggiamenti comprensivi ai limiti della indulgenza per una esaltata immoralità politica, pubblica e privata dei potenti? Evangelizzare oggi non può essere il terreno o l'occasione di una reconquista religiosa come alcuni gruppi e prelati dicono, pensando così di recuperare la sicurezza di un passato, alla fine poco glorioso, con la vana speranza di riuscire a trattenere il più possibile una deriva religiosa altrimenti incontenibile. Battere ancora una volta la strada di un riscatto della fede in termini di posizioni forti da conquistare o da mantenere significa vanificare ogni onesta impresa di evangelizzazione, non avendo orecchi e cuore per ascoltare ciò che lo Spirito dice alle Chiese, per affrontare con attrezzata sapienza e con riguadagnata umiltà la vera sfida missionaria che aspetta oggi la Chiesa: non è quella di annunciare il rigore della Legge ma di prospettare la verità delle beatitudini in un mondo che sente sempre meno il bisogno di affidarsi a un dio crocifisso.


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