Sull'ora di religione



Il diaconato in Italia n° 167
(marzo/aprile 2011)

RIQUADRI


Sull'ora di religione
di Giuseppe Bellia


La vicenda malagevole dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane si trascina da molti anni tra polemiche ideologiche e oltranzismi devoti, con rari tentativi di soluzione concordata che non hanno ancora prodotto risultatati condivisi e, soprattutto, utili per i ragazzi. Specialmente nelle scuole secondarie l'ora di religione sconta tutti i suoi ritardi e tutti i suoi equivoci, sia a livello istituzionale, sia a livello del corpo docente. Il bene degli alunni, quasi inavvertitamente, passa in secondo piano perché, specie con l'attuale gestione ministeriale, si grida allo scandalo per l'ingiustizia di masse di precari che rischiano di restare senza lavoro mentre nessun taglio è toccato agli insegnanti di religione.
Si dovrebbe guardare alla cosa in sé, come un'iniziativa culturale e non confessionale, pedagogica e non politica per non essere di volta in volta a rimorchio di incauti detrattori e d'incalliti sostenitori. Insomma, non si dovrebbe riproporre l'annosa contesa tra ghibellini e guelfi, ma vedere come perseguire gli indirizzi formativi dei nostri giovani e quindi, in prospettiva, di guardare agli interessi reali dell'intero paese. Mi sembra utile segnalare solo due pensieri che ritengo possano dare luce sul perché e sul come insegnare religione a scuola. Le riflessioni le prendo in prestito la prima da un pensatore, indubitabilmente laico come Umberto Eco, e la seconda da uno scrittore ebraico di grande spessore religioso come Martin Buber.
Scrive Eco: «Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dèi di Omero e pochissimo di Mosè? Perché debbono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)?». E Buber afferma: «Fiducia, fiducia nel mondo, perché esiste quella persona - questo è l'elemento più intimo del rapporto educativo. Dato che esiste quella persona, nelle tenebre si nasconde certamente la luce, nel terrore la salvezza e nell'indifferenza di coloro che vivono insieme il vero amore. Perché c'è quella persona. E però quella persona deve esserci davvero». Se il primo evidenzia la sterilità di un sapere autoreferenziale che non comprende che la cultura è apertura e non preclusione, il secondo sottolinea che il processo formativo richiede la presenza di formatori affidabili. Solo la capacità di scommettere sul bene dell'apertura culturale accompagnata da rassicuranti figure di riferimento darà alle nuove generazioni quella spinta per regolare il rapporto tra diritti e doveri, o meglio, fra i desideri e il loro limite. Non potrebbe essere questo un punto di avvio per un insegnamento della religione che, rispettoso del piano culturale, propone i docenti come presenze affidabili di educatori esperti di esistenza, anziché funzionari dottrinali?




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