Educare nel mondo postmoderno



Il diaconato in Italia n° 167
(marzo/aprile 2011)

ANALISI


Educare nel mondo postmoderno
di Paolo Fichera


In un contesto come quello attuale sembra necessario porsi una domanda relativa alla possibilità stessa dell'opera educativa, specie in alcuni ambiti come quelli scolastici. È ancora possibile, non soltanto educare, ma parlare ancora di educazione? La domanda non pare inutile perché, confrontandosi con esperienze di diverse persone che operano in ambiti educativi, dinanzi a situazioni che per loro risultano oggettivamente frustranti (si pensi a certe scuole dove, a detta degli insegnanti, si svolge più un ruolo di assistenza sociale che docente)1, sembrerebbe che rimanga come unica possibilità la comunicazione di saperi volti alla conquista di determinate abilità, in genere funzionali a fini professionali. Non più l'educare come e-ducere, inteso socraticamente come accompagnamento verso la consapevolezza di sé e della propria capacità di verità, ma l'acquisto di competenze (quando va bene) che servono al vivere in società. A pensarci bene, proprio perché non c'è davvero nulla sotto il sole, è l'eterna diatriba (come è stata storicamente presentata) tra una visione sofistica dell'uomo e della sua posizione nel mondo e quella che scommette, a modo suo senz'altro, sulla possibilità di un dialogo educativo volto non soltanto alla conquista di abilità, ma alla costruzione della personalità2.

Come riappropriarci del senso perduto?
Il primo passo dovrebbe essere proprio questo: riappropriarsi del senso dell'educazione, ossia - da parte degli educatori - di ritrovare la motivazione di fondo della propria opera. Senza questa motivazione, il che spesso accade perché chi educa è lasciato solo a se stesso, non rimane che la comunicazione di un sapere tecnico finalizzata a vivere una dimensione dell'essere in società; tale sapere resta certo necessario, ma è appunto limitato. Una società deve decidere se accettare (in ultima analisi rassegnarsi a) questo limite, o cercare altro. Questa questione preliminare non è scontata, perché suppone la condivisione del senso di ciò che si sta compiendo, prima ancora che del contenuto il quale, in un'epoca di pluralismo, non potrà che essere appunto plurale. È il senso che appunto non è scontato.
Accertato che ha senso quello che facciamo, possiamo poi confrontarci sui contenuti in condizioni di parità nel discorso, secondo la nota espressione di Habermas3, attraverso la ricerca di una "grammatica comune" – a mio avviso ancora carente – che consenta il dialogo. E questo tenendo conto di una situazione in cui è messa radicalmente in discussione la possibilità di una visione unitaria dell'uomo, del suo sapere, della realtà. Questo senso ovviamente non appartiene al solo educatore. Ma è anche dell'educando, qualunque significato si voglia dare a questa parola. Qui si suppone, in quanto stiamo dicendo, una polarità asimmetrica non per una prevalenza dell'educatore, ma semplicemente perché il ragazzo ha il diritto di non essere lasciato solo.
Comunque si voglia intendere il tempo che viviamo, sicuramente è segnato da una realtà sotto gli occhi di tutti, di cui abbiamo testimonianze molteplici nelle piazze virtuali abitate dai nostri giovani: una spaventosa solitudine, che magari è perfino coltivata ma che segna di dolore tante esistenze, di troppe ferite.

I mille volti della solitudine
Tale solitudine permea ogni aspetto della socialità. «Una delle più profonde povertà che l'uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall'isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare. Le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell'amore di Dio, da un'originaria tragica chiusura in se medesimo dell'uomo, che pensa di bastare a se stesso, oppure di essere solo un fatto insignificante e passeggero, uno "straniero" in un universo costituitosi per caso. L'uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando rinuncia a pensare e a credere in un Fondamento» (Caritas in veritate, 53).

Tra educatori ed educandi deve esserci solidarietà
L'educatore è colui che, in un tempo dove i vincoli di solidarietà, il senso di appartenenza, non sono messi in discussione ma semplicemente privati di significato, getta un ponte abbattendo muri e "fatali barriere di diffidenza", secondo la nota espressione di Don Bosco4, indovinando con amore e intuito le necessità e le sofferenze di chi ha dinanzi, perché intuisce che magari sono le proprie necessità e sofferenze. In questo consiste la solidarietà tra educatore ed educando, in questo risiede il dialogo educativo: la consapevolezza della comune appartenenza all'umanità e quindi del comune vissuto di gioie e dolori, di ferite e possibilità di cura. È per questo che si dice che educare significa anzitutto essere "esperti in umanità"5.
Certo dobbiamo essere realistici. In questa situazione è perfettamente inutile dare facili cure, inutili palliativi. Forse occorre riconoscere che non è detto che il disincanto del mondo di cui parlava Weber6, che caratterizzerebbe l'attuale generazione sia negativo in assoluto. Perché, se è vero da una lato che il rischio è quello di un perdersi dietro l'immediato a buon prezzo7, come già osservavano con acume Adorno e Horkheimer fin dagli anni Quaranta a proposito dell'industria culturale, d'altro canto questi giovani sono forse più vaccinati rispetto al passato contro facili illusioni, vani progetti che hanno visto fallire nei loro padri (e nei loro occhi si legge la rabbia per i fallimenti paterni: affettivi soprattutto). Vero è che la categoria che rischia di dirigerli è la degenerazione dell'interessante8 di cui ha parlato Kierkegaard: e magari fosse davvero l'interessante in senso kierkegaardiano a guidare l'esistenza, perché cogliere questo presuppone almeno una finezza di stile. Forse ciò che dirige è l'immediato, ma almeno dall'immediato si può, se volto in positivo, cogliere un elemento: la capacità di essere aderente al reale, al presente. Ma questo esito non è per nulla scontato e i fatti emergenti alla nostra coscienza dalla galassia giovanile come la punta di un iceberg confermano che siamo ben lontani da un sereno vivere da nomadi per i quali a ciascun giorno basta la sua pena; prevale piuttosto un presentismo la cui traccia è sempre stata ben presente nella storia dell'umanità, e che oggi appare il frutto del fallimento dell'idea di progetto, segno distintivo della modernità, secondo la nota osservazione di Lyotard9, e che porta con sé una "perdita dell'attesa" e dunque l'inaridirsi di un'autentica attività desiderante.

Nulla di nuovo sotto il sole
Una simile condizione spirituale è stata sempre presente, come ci testimonia il seguente testo della sapienza antica, tratto dal biblico Libro della Sapienza (Sap 2,1-11). «Dicono fra loro sragionando: "La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. È un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore. Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore. La nostra esistenza è il passare di un'ombra e non c'è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano; nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto povero, non risparmiamo le vedove, nessun riguardo per la canizie ricca d'anni del vecchio. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile"».
Con Umberto Eco sarebbe proprio il caso di dire: «Il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente»10. In tal modo comprendiamo che veramente "nulla di nuovo è sotto il sole". E forse abbiamo davvero bisogno, come detto bene da un autore contemporaneo, di ritrovare, in un tempo di crisi della sapienza, quella "sapienza della crisi"11 che ci permetterebbe di camminare magari passo dopo passo, ma non smarriti (c'è una bella differenza), come smarrite sembrano le giovani generazioni. Abbiamo bisogno di questa sapienza che ci guidi nel cammino quotidiano, nell' "aspro diserto" che è il luogo educativo.

La valenza del postmoderno
Si tenterà ora, si spera non superficialmente e con un intento problematizzante, un confronto con le idee-madri della posizione post-moderna, per coglierne la valenza e operare una valutazione consapevole della foro portata, e porgere qualche linea di riflessione. Comunemente vengono riconosciuti i seguenti caratteri della post-modernità: la sfiducia nei macro-saperi omnicomprensivi e legittimanti; il rifiuto di considerare il "nuovo" come sinonimo di "migliore"; la rinuncia di considerare la storia come un processo universale e necessario verso una condizione di redenzione finale; per cui si nega la possibilità di qualsiasi "terapia salvifica" e il pensiero è "senza redenzione"; il rifiuto di una razionalità tecnico-scientifica di dominio sull'uomo e sulla natura con la conseguente sensibilità a tematiche ambientali; l'accoglienza del paradigma della molteplicità e della differenza.
Di fronte a tali sfide due, a mio avviso, possono essere le reazioni di chi non si riconosce in tali orientamenti. Da un lato il rifiuto in nome della lode del tempo passato, del desiderio di fondazioni stabili, di costruzioni intellettuali (e anche pedagogiche) solide e rassicuranti; in nome del ripristino di un principio di unità e autorità che si percepisce negato, ad esempio, dal paradigma della differenza e dalla fisionomia policentrica e diversificata delle odierne società che avrebbe portato a una mentalità iconoclastica e antigerarchica.

Un pericolo paventato da lungo tempo
Ovviamente tali posizioni nascono da esigenze sentite almeno in alcuni casi (a meno che dietro certi richiami non si nascondano progetti non chiari di altra natura). Il fatto è che, per dirla con Lyotard, che non si riporteranno "le lancette dell'orologio sullo zero"12, a meno che non accadano catastrofi non augurabili. Il che non significa che occorra gettare via tutta una saggezza del passato che, come nel testo di Sapienza citato precedentemente, ci dà anzitutto una chiave di lettura dell'umano che illumina e orienta il nostro pensare e agire. Ad esempio ci si rende conto del fatto che vada ripristinato il principio di autorità, per evitare quanto già Platone segnalava come pericolo: «Quei cittadini che obbediscono alle autorità costituite vengono oltraggiati e trattati da uomini volontariamente schiavi e buoni a nulla [...]. Il padre si abitua a trattare il figlio da pari a pari, e viceversa il figlio nei confronti del padre, tanto più che non rispetta e più non teme i suoi genitori, appunto per essere libero [...] il maestro teme e adula i propri allievi, e gli scolari s'infischiano dei maestri [...]: a loro volta i vecchi si mostrano pieni di condiscendenza verso i giovani, tutti briosi e scherzosi, imitando i giovani sì da non parere intolleranti e dispotici. [...] Tale è dunque il tanto bello ed esuberante principio d'onde sboccia la tirannide»13.
Ma la coscienza attuale pretende che un'autorità che voglia essere educativa - al di là del ruolo istituzionale per cui bisognerebbe tornare al "senso delle istituzioni" - e non soltanto trasmettitrice di dati e nozioni, sia autorevole, ossia capace di com-patire e con-dividere la propria umanità con coloro che incontra e che accompagna per un tratto di cammino. Il che sembra condivisibile dalla coscienza di tutti. Dunque non sembra saggio il rifiuto preconcetto e il ritorno al passato. Ma allora quale via resta? Taluni si riconoscono in toto nelle posizioni descritte. Sarebbe preferibile una valutazione che vagli i diversi aspetti compiendo una sorta di "furto sacro" sul modello agostiniano che comprenda criticamente, accogliendo quanto giova. Questo atteggiamento permetterebbe un dialogo comune, tra credenti e non. E siccome è l'umano, la dignità dell'umano, che dovrebbe accomunare tutti, credenti e non, si tenterà di cogliere anzitutto nelle dimensioni del postmoderno quanto giova all'uomo, sapendo che questo giova alla sua redenzione.

Cosa giova del postmoderno?
Sarebbe, a mio avviso, tutt'altro che saggio «proporre il bidone della spazzatura per i frammenti o brandelli di verità che la nostra cultura esibisce»14. In questa prospettiva, il rifiuto di sistemi di pensiero omnicomprensivi potrebbe essere letto in chiave pedagogica come una difesa da forme ideologiche che giustificano l'esistente o che lo costringono, in una situazione di complessità, in gabbie concettuali che non ne fanno cogliere la varietà. Se questo non diventa un rifiuto preconcetto all'accoglienza di un pensiero liberante pur critico, in una sorta di "nobile sofistica" sterile (il rischio c'è), ci si trova dinanzi ad un antidoto ad esempio contro argomentazioni che sostengono certe forme di vivere sociale che schiavizzano l'uomo, illudendolo della sua libertà.

Disperazione e vie pseudosalvifiche
Allo stesso modo, il rifiuto di considerare il "nuovo" come portatore di "magnifiche sorti e progressive", per dirla con Leopardi, libera da mode intellettuali e non e può aiutarci a recuperare dimensioni del nostro passato che ci aiutano a vivere meglio il nostro presente, riscoprendo un sapere storico, letterario, filosofico, artistico, senza considerare il passato come portatore di una sorta di "malattia storica". Certo il negare che la storia abbia un esito salvifico, rifiutando qualsiasi messaggio di redenzione, apre la porta a quella "tranquilla disperazione" che sembra segnare i volti e i cuori della nostra giovane generazione; ma non è forse vero che spesso gli educatori hanno proposto annacquate saggezze che hanno condotto i giovani a scegliere piccole (e talvolta mortali) vie pseudosalvifiche? Per cui davvero non pare lecito lamentarsi se non credono più a niente, respirando tale clima, visto che le vie indicate erano o insignificanti o non erano mai state percorse da chi le indicava. Il pensiero spesso è senza redenzione perché il pensatore non è redento, anche se dice di essere tale.
Giova qui ripetere, di fronte a certi atteggiamenti sicuri di sé e giudicanti, quanto affermava Pascal, nei Pensieri: «Gli uomini credono di essere già convertiti, quando cominciano a pensare di convertirsi»15. Ma i giovani di oggi, nel loro disincanto, in certe situazioni nascono quasi con gli occhi aperti e non si lasciano ingannare (mentre invece sono estremamente fragili in altri contesti, per cui è purtroppo facilissimo illuderli). Usando l'espressione di Paolo VI, nella Evangelii Nuntiandi, essi ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri, o, se ascoltano i maestri, lo fanno perché sono dei testimoni. Inoltre alcune sensibilità che si sono fatte strada, quali l'attenzione ecologica che rifiuta una visione tecnocratica di dominio sull'uomo e sulla natura, possono costituire nell'attuale contesto preziose basi comuni per un cammino educativo che, ancora una volta, ponga l'umano, la persona al centro dell'attenzione.

Visioni del mondo e piani educativi
Una parola specifica sembra debba riservarsi al confronto con un modello conoscitivo, sociale, antropologico policentrico. Come è noto, la riflessione sui paradigmi ha ricevuto un'enfasi particolare dalla riflessione di T. S. Kuhn, il quale utilizzò il concetto di paradigma come chiave di lettura per il cammino del sapere scientifico16. Successivamente la categoria si estese anche in altri ambiti, sociale, storico, anche teologico. Qual è dunque il paradigma dominante con il quale deve confrontarsi la riflessione e l'opera educativa? Quali sono le conseguenze di tale confronto? Non è certamente nostra pretesa l'esaurire un tema così vasto in queste poche battute, si vuole soltanto porre la questione e suscitare una riflessione inquieta, affinché si accetti la sfida che oggi gli educatori sono chiamati ad affrontare.

Per viaggiare nella storia
Se è vero che il paradigma vincente è quello della molteplicità e della differenza, occorre che chi si assume il compito di educare sappia confrontarsi col "nomadismo teorico" di cui parla Gaetano Chiurazzi e che è ben sintetizzato da quanto questi afferma ne Il postmoderno: «Questo "nomadismo teorico", che porta a viaggiare nella storia come in una banca dati, come si naviga su Internet, è la condizione propria dell'uomo postmoderno, la cui esperienza, come vedremo più estesamente affrontando i temi del postmoderno filosofico, è caratterizzata dalla perdita di un punto di riferimento stabile e stanziale, dal continuo attraversamento - reale e virtuale - di frontiere, da un non sentirsi mai "a casa propria", il che non è vissuto in termini nostalgici, quanto piuttosto con un senso di euforica libertà. [...] Il postmoderno combatte quindi ogni tentativo di totalizzazione, e in questo ha una funzione di resistenza: porta guerra al tutto, è il dissidio contro la conciliazione, l'affermazione della differenza contro l'identità e l'uniformizzazione, è il continuo rilancio della sperimentazione contro il compimento»17.
Recentemente, in modo divulgativo, A. Baricco nel suo saggio I barbari ha utilizzato il termine inglese surfing per indicare una situazione che non è soltanto conoscitiva, ma si presenta con precisi connotati esistenziali che identificano in particolare la condizione giovanile del nostro Occidente: il vivere accumulando informazioni ed esperienze senza una bussola che indichi una direzione (perché non vi è né bussola né direzione) in un'avventura che trasforma il "navigatore solitario" del web in un esploratore che non cerca una meta, ma gode dell'esplorare stesso18. Questa visione della vita non può non avere ricadute sul piano educativo, per cui vi è il rischio - già segnalato in passato ma oggi notevolmente amplificato - che gli educatori comunichino su lunghezze d'onda totalmente diverse dalle giovani generazioni, apparendo così insignificanti. Questo non significa accettare acriticamente tale paradigma, per lo meno non è senz'altro questa la nostra posizione, ma affermare che occorre capirlo fino in fondo per evitare di operare in un campo sconosciuto: senza la conoscenza del territorio spirituale, a nostro avviso ogni opera educativa rischia l'inutilità.
Da questo territorio spirituale si emana un'angoscia da ascoltare che sembrerebbe smentire l'avvento di quel "nichilismo della leggerezza" di cui parla Vattimo, per cui si «riesce a vivere "senza nevrosi" in un mondo in cui Dio è nietzscheanamente morto». Si possono cogliere diverse e interessanti suggestioni da una certa analisi della fisionomia dell'uomo postmoderno, ma non si può fare a meno di domandarsi se sia proprio vero che «non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma perché siamo ancora troppo poco nichilisti, perché non sappiamo vivere fino in fondo l'esperienza della dissoluzione dell'essere»19. Nasce proprio da qui il disagio? Da questo nasce la "quieta disperazione" dell'uomo moderno e soprattutto di quella parte speciale dell'umana società che è la gioventù, da non intendersi più come portatrice di futuro?

Educare alla relazione
Alcune risposte sembrano troppo facili, allo stesso modo di altre contestate come retaggio di un passato da superare. Ma certamente non basta comprendere. Occorre anche domandarsi come illuminare intelligentemente, in piena aderenza al reale e senza perdere la speranza, l'opera educativa. Pare proprio che la (le) Weltanschaung più diffusa(e) oggi lasci vuoto uno spazio essenziale: se educare è "trarre fuori", far nascere l'uomo che è in noi, questo può avvenire soltanto educando alla relazione.
La relazione si impara, così come si apprendono abilità e conoscenze, ma in una modalità diversa perché riguarda la dimensione più profonda dell'essere umano, non soltanto un suo aspetto20. In fondo ogni opera educativa ha sempre avuto come fine il permettere al giovane di "sapere stare al mondo", con i suoi simili, in modo da essere contento di stare in questo mondo, con tutte le sue prove, i suoi successi, i fallimenti, le sue gioie e i suoi dolori, con i suoi simili con i quali interagisce. Oggi la relazione profonda fa paura, sembra dimostrarlo il trionfo delle modalità virtuali della comunicazione, che da strumenti utili talvolta si trasformano nel modello prioritario di interazione. Opportunamente è stato detto: «Rivoluzionando le nozioni tradizionali di tempo e di spazio, i media elettronici hanno reso possibile lo stabilirsi di relazioni sociali indipendenti dai contesti locali di interazione»21. Mi pare che questa sia l'autentica svolta epocale: il pensare la relazione senza la prioritaria interazione che ha come mediazione la corporeità, ma attraverso un "filtro" che supera, quasi annullandoli, i contesti locali, la relazione vis-a-vis. Ancora probabilmente non sappiamo cosa comporterà questa rivoluzione che è antropologica, e che non è accessoria o interpretabile soltanto come evento di progresso scientifico.

Oltre i finti dialetti bisogna reimparare l'alfabeto affettivo
Di questa minore rilevanza delle tradizionali modalità comunicative (anche di comunicazione affettiva) la fatica pedagogica dovrà tenere conto; come dovrà tener conto delle conseguenze di questa nuova condizione sui cosiddetti "marginali", i giovani che hanno meno possibilità di accesso a certe risorse comunicative. Essi spesso guardano con una rabbia che va sempre più crescendo un mondo che, per quanto sembri dare spazio «alla liberazione delle differenze, degli elementi locali, di ciò che potremmo chiamare, complessivamente, il dialetto»22, in realtà ha tutta l'aria di emarginarli, per cui con la loro rabbia assediano le nostre città. Il rischio che stiamo correndo è lo smarrimento della capacità di educare alla relazione perché abbiamo perduto l'alfabeto affettivo, divenuti ormai analfabeti dello spirito, incapaci di comunicarci. E i luoghi "istituzionali" dell'educazione non sono senz'altro visti come i luoghi di tale educazione alla relazione.
Qualche anno fa il prof. Umberto Galimberti ha scritto un testo, L'ospite inquietante, in cui si afferma che il nichilismo abita la vita dei giovani corrodendo i concetti di individuo, identità, libertà, senso, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si è nutrita l'età pretecnologica. Il testo si domanda se sapremo mettere alla porta tale ospite che non vuole saperne di uscire23. Forse tale fantasma si allontanerà dal castello interiore dei nostri giovani, e anche nostro, se avremo allontanato il suo figlio prediletto che è la disperazione, la disperazione di poter tessere relazioni autentiche che sanno scommettere sulla loro stessa solidità, pur con tutte le difficoltà e le prove. Ma la domanda è: c'è ancora chi sa scommettere su questo?

(P. Fichera, salesiano, docente di Filosofia contemporanea nell'Istituto teologico
San Tommaso di Messina, si occupa da anni di formazione nell'ambito scolastico)

Si educa solo nella misura in cui si ama dicono oggi molti pedagogisti. Don Bosco aveva affermato: «L'educazione è cosa di cuore». E ancora: La pratica di questo sistema è tutta poggiata sulle parole di san Paolo che dice: «La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene tutto». Don Bosco è convinto che solo Dio ci può insegnare l'arte di amare come Lui e di educare. Di qui l'importanza della religione nel suo sistema educativo. Educare è volere il vero bene del giovane e il primo passo è farselo amico, guadagnare il suo cuore. In una lettera famosa di don Bosco, scritta ai Salesiani da Roma nel 1884, si legge: «Chi sa di essere amato, ama; e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani». Non basta amare i giovani: occorre che loro si accorgano di essere amati. Tanti anni prima aveva ricevuto, in un sogno, un consiglio prezioso: «Non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai guadagnare il cuore dei giovani». Un amore che sa di consacrazione: l'educatore è tutto consacrato al bene dei suoi alunni, quindi capace di dare loro tutto, anche la vita. L'attualità di questo stile pedagogico che fa riferimento a don Bosco è sotto gli occhi di tutti, anzi sembra essere più urgente oggi di quanto lo fosse un secolo fa. L'educazione è opera faticosa, dai tempi lunghi, con successi e fallimenti alterni; non ha ricette preconfezionate, perché deve fare i conti con l'irripetibilità di ogni persona, si fonda sulla convinzione che il bene presente in ogni soggetto è un valore tale per cui vale la spesa "dare la vita".


Note:
1 Recentemente diversi studi hanno evidenziato le diffusione del fenomeno del burnout degli insegnanti, ossia di quella forma di stress che colpisce le figure di aiuto in condizioni difficili in cui le motivazioni sono messe a dura prova. Si veda, a tal proposito e solo come esempio di indagine relativamente recente sull'argomento, l'articolo Burn-out e patologia psichiatrica negli insegnanti in www.edscuola.it.
2 Sul tema, si veda la sintesi esposta in R. Lanfranchi - j. M. Prelezzo, Educazione, scuola e pedagogia nei solchi della storia, LAS, Roma 2008, pp. 71-85.
3 Cf. J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1997.
4 G. Bosco, Lettera da Roma, Elledici, Torino-Leumann 2008.
5 L'espressione, in origine, appartiene a Paolo VI. Cfr. il Discorso alle Nazioni Unite, 4 aprile 1965, 1. Il testo si trova in http://www.vatican.va.
6 Cf. M. Weber, La scienza come professione, trad. it. ne Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948, pp.19-20.
7 «L'apoteosi del tipo medio appartiene al culto di ciò che è a buon prezzo» in T. W. Adorno - Habermas, Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 168. Si veda, nella medesima opera, la profetica riflessione (la prima edizione è del 1944) sulla "industria culturale" alle pp. 126-181.
8 Soprattutto in S. Kierkegaard, Il diario del seduttore, in Enten - Eller, Adelphi, Milano 1997, tomo terzo, pp. 41-448.
9 Cfr. J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 27-28.
10 U. Eco, "Postille" al Nome della rosa, Bompiani, Milano 1980, p. 528.
11 L'espressione si trova in G. Bellia - A. Passaro, L'infinita passione per la giustizia, in G. Bellia - A. Passaro (edd.), Il libro della Sapienza. Tradizione, redazione, teologia, Città Nuova, Roma 2004, p. 344.
12 F. Lyotard, Il postmoderno, op. cit., p.88.
13 Platone, Repubblica, Libro VIII, 562-563, in Id., Dialoghi politici, UTET, Torino 1996, p. 619-621.
14 L'espressione è di G. Lorizio, Cattolicesimo e postmodernità. Alcuni spunti di riflessione, in http://www.lorizio.net.
15 B. Pascal, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, pensiero 241, p. 115.
16 Cf. T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1963.
17 G. Chiurazzi, Il postmoderno, Paravia scriptorium, Torino 1999, pp. 26.40.
18 Cfr. A. Baricco, I barbari, Fandango, Roma 2006.
19 G. Vattimo, Filosofia al presente, Garzanti, Milano 1990, p. 26.
20 Per questo Don Bosco affermava che «l'educazione è cosa di cuore».
21 M.A. Pesare, Globalizzazione e localismi tra antropologia e sociologia, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 5 (2003). L'indirizzo WEB della rivista è http://mondodomani.org.
22 G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 2000, p. 17.
23 Cf. U. Galimberti, L'ospite inquietante, Feltrinelli, Milano 2007.




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