Il diaconato in Italia n° 167
(marzo/aprile 2011)
CONTRIBUTO
La speranza per vincere la sfida
di Giovanni Chifari
Educare è una "cosa del cuore". Più che indicare un retaggio di sentimentalismo, quest'affermazione, patrimonio della tradizione dell'educazione cristiana, sembra suggerire la necessità di una relazione autentica fra educatore ed educando, e la possibilità, nella distinzione dei ruoli, di poter rinviare a Colui che ha le chiavi di questo cuore, al quale maestro e allievo saranno chiamati a conformare la propria esistenza. Nel nostro tempo che sfigura e deturpa le identità, che tende a spegnere ogni voce profetica se non rispondente a percorsi pensati e catalogati secondo un conveniente politicaly correct, siamo chiamati ad un percorso di discernimento e ricerca, riscoprendo la centralità della relazione con Cristo, crocifisso e risorto, attingendo a quell'esemplarità normativa e testimoniale della sua diaconia verso l'uomo e il mondo intero.
Educare come esercizio della diaconia di Cristo, è opportunità propizia per narrare e testimoniare il volto amorevole e misericordioso di Dio, che sostiene e accompagna l'uomo perché diventi adulto nella fede e sereno e fiducioso nel dialogo con la cultura e con la storia. Tutto ciò ci rimanda all'autenticità della mediazione che la Chiesa tutta, in ogni ruolo, competenza e stato di vita è chiamata a dare all'uomo contemporaneo. In particolar modo i diaconi permanenti, hanno molto da dire e da offrire su queste tematiche, a partire da quella mediazione discepolare che li invita, come lo scriba divenuto discepolo, a saper trarre dal proprio tesoro cose vecchie e cose nuove (cf. Mt 13,51), legando con il loro annuncio e la loro stessa vita, memoria e profezia, quale dono necessario e cruciale per l'uomo del nostro tempo.
Nella luce della speranza verso una "vita buona"
Negli ultimi decenni i diversi documenti della CEI hanno puntualmente segnalato una certa difficoltà educativa, già evidenziata dal più ampio dibattito politico-sociale, descrivendo un contesto in progressiva e forse inarrestabile evoluzione, presentandolo a più riprese con lo slogan del "mondo che cambia", che ritorna quasi come un ritornello in diversi documenti. Questa consapevolezza diffusa, fondata sull'osservazione, determinerà un discernimento alla ricerca delle cause e delle motivazioni antropologiche e culturali che hanno favorito un'impreparazione così evidente. Se i documenti bene illustrano i nodi e le tendenze che governano l'attuale temperie culturale, dall'eccessiva intraprendenza di un concetto di autonomia fino al relativismo ed edonismo materialistico, non si osserva a volte la stessa lucidità di analisi e di linguaggio quando si dovrebbero presentare quelle inevitabili responsabilità ad intra. Ciò delinea un certo orientamento tendente all'autocensura che forse è troppo clemente verso quelle ammissioni di errori e fallimenti, che sarebbero in realtà liberanti, e che in verità giocherebbero un ruolo significativo anche sul piano comunicativo, mostrando il vero volto dei discepoli, che consapevoli dei propri limiti e fragilità mostrano di abbandonarsi nelle mani di Colui che continua ad operare nella storia al di là di ogni più elaborato e sofisticato piano pastorale. L'esperienza lacerante della fragilità umana, che biblicamente osserviamo non celata nei discepoli e in Paolo, più che indicare un segno di insicurezza, denota un cammino discepolare che non avanza alcuna pretesa, alcun trionfalismo, alcuna ostentata sicurezza se non in quel «vanto della Croce» (cf. 1Cor 1,18), che non rinvia a se stessi ma al Cristo crocifisso e risorto e alla sua Parola salvifica. Una debolezza antropologica che confidando in Cristo, additando Lui, potrebbe divenire una solida e condivisa base dalla quale poter dialogare con l'uomo contemporaneo, facendo esperienza della novità della resurrezione.
Se invece ripercorriamo dal solo punto di vista linguistico diversi contributi e documenti, appare subito evidente come non sia stata ancora recepita la novità sconvolgente e sostanziale di tale evento, se è vero che i termini maggiormente utilizzati per segnalare e rilanciare la questione educativa; sono riassumibili in tre spot che accompagnano e presentano lo scenario attuale: "urgenza", "emergenza", "sfida". Chi vive nell'ambito educativo sa riconoscere quanto possa essere deleterio un simile approccio, che mentre sembra dichiarare e trasmettere un certo stato di allarme, coniugato con un clima di conflittualità, svela altresì la tendenza a voler gestire e governare un quid apparentemente incontrollabile, denotando un certo timore ed un'impotenza difficile da accettare. Da dove ripartire allora? Non è vero forse che nel timore non c'è amore (cf. 1Gv 4,18)? Non sa ogni educatore che l'ansia trasmette indecisione ed insicurezza? E che l'urgenza rischia di mettere in moto un'agitazione che poi non giova a nulla?
È opportuno porsi, così come fa l'ultimo documento1, alcune decisive domande: le indicazioni maturate nel Convegno di Verona sono state recepite? C'è un rinnovamento dell'azione ecclesiale? (cf. EVB, 54). Una Chiesa che comprende e riconosce di dover ripartire dal Cristo crocifisso e risorto, mostrerà un volto rinnovato dai doni che ha da Lui ricevuto. La Scrittura ci dice che fra questi il primo è quello della pace, che a porte chiuse raggiunse i discepoli rinchiusi nel cenacolo (cf. Gv 20,21), e che poi da Pentecoste, non smette di estendersi di fede in fede, per opera dello Spirito, attraverso una testimonianza che professa la centralità dell'incontro con il Cristo crocifisso e risorto. C'è pace o frenesia oggi? Riusciamo a guardare gli eventi con gli occhi di Dio? Con quale volto ci presentiamo verso coloro che vorremmo educare? Un dato che convince dalla lettura degli ultimi orientamenti pastorali è la scelta di affermare una centralità cristologica (EVB, 16-19) che presenta Gesù come il Maestro «che ci educa mediante la sua stessa vita» (EVB, 16), rintracciando come chiave di lettura esemplificativa di questa intrinseca connessione fra educazione e vita il brano che ci racconta il gesto della lavanda dei piedi ai discepoli (cf. Gv 13,14).
Coloro che sono assidui frequentatori di questa rivista sapranno leggere fra le righe che stiamo parlando della diaconia di Cristo. Il documento non si spinge fino a tanto, forse perché la diaconia esprime ancor oggi una realtà non pienamente recepita o facilmente equivocabile con stereotipi standardizzati e conclamati luoghi comuni, più delle volte utilizzati per dare un volto barocco ad altisonanti relazioni piuttosto che a motivo di una reale esperienza spirituale, teologica ma anche biografica. Tuttavia questa chiave di lettura, potrebbe essere utile per superare questo stato di empasse, per religere, collegare, conciliare l'esperienza di una relazione salvifica e l'esemplarità normativa che essa ci dona, con la responsabilità del discepolo di Cristo, umile strumento e mediatore. Dalla diaconia di Cristo a quella del discepolo, dall'esemplarità normativa del mite Rabbì Galileo al servizio educativo e formativo del servo "inutile", sarà la conversione a scandire i tempi di una mediazione che potrà divenire più decisiva ed efficace non disperdendosi nell'affollata agorà delle voci della contemporaneità.
Gli educatori sono chiamati a essere mediatori di un incontro, non di idee o parole vuote, poiché non generate dal silenzio, istruzioni o cataloghi di virtù morali che risultano inconsistenti se non scaturiscono dall'adesione e conformazione a Cristo. Alla conoscenza di Cristo sarà necessario affiancare l'impegno faticoso di conoscere l'uomo e le dinamiche della storia, per poter storicamente incarnare quelle ragioni della fede, che educano l'umano, così come sottolineato da A. Sabetta: «la fede educa l'umano e dalla fede discende uno sguardo verso il reale, una posizione rispetto al reale altrimenti impossibile. Se la fede educa l'umano, laddove l'uomo rinuncia al paragone con la provocazione che proviene della fede c'è sempre un impoverimento»2.
Tutto ciò non vale solo per l'insegnamento della teologia, che forma i formatori, ma anche per l'insegnamento della religione cattolica, che consente l'incontro con l'uomo attraverso il dialogo con la cultura e con la storia. Gli orientamenti pastorali auspicano il raggiungimento di una cultura umanistica e sapienziale, tra gli obiettivi della scuola (EVB, 46), ai quali contribuisce il docente di religione cattolica attraverso un servizio competente e qualificato (EVB, 47). Una tale e decisiva mediazione vive oggi a livello antropologico, la difficoltà della comunicazione e l'oblio dell'ascolto, non solo per la frammentazione relativistica o le derive edonistiche ma anche per quella progressiva decadenza della testimonianza del docente, che sempre più spesso non riesce ad incidere, non riuscendo a suscitare inquietudini e passioni. Quando invece la mediazione è efficace e si riscontra una certa risposta, vedremo moltiplicarsi gli interrogativi e la ricerca di senso, reale presupposto affinché si possa ricercare un approccio con Cristo. Tuttavia essa dovrà farsi carico, a nome della Chiesa, al cui servizio è il docente, del peso di domande sempre più frequenti e che ormai non si possono eludere, né contenere, poiché colgono effettivamente delle palesi contraddizioni e dei conflitti irrisolti, che le giovani generazioni svelano con disarmante disinvoltura.
È altresì opportuno porsi alla scuola dei testimoni che illuminano il cammino della Chiesa, di quei maestri e profeti che nella loro vita ci lasciano intravedere i tempi di Dio, educandoci alla misericordia e alla speranza, tratteggiando una via e dei modelli di santità, che tuttavia dobbiamo saper guardare con gli occhi di Dio. Troppo spesso ancora oggi, assistiamo a presentazioni mirabolanti e trionfalistiche che al modo dei pagani, pongono l'accento su ciò che è accessorio, su un fare contraddistinto da grandezza, che più che consentire l'incontro con Cristo, rischia di dilatare la distanza, presentando esempi eroici o inarrivabili. Che cosa dovremmo guardare o in essi imitare? Dovremo poter in essi valorizzare quella percezione dei propri limiti e fragilità, insieme al faticoso cammino fatto di difficoltà, conquiste ed insuccessi, tuttavia aperto all'umile e discreta irruzione della grazia divina. Non è forse questo il cammino del discepolato? Si ascende verso la croce da vincitori o da vinti?
La luce della resurrezione potrà promanare e risplendere solo da quei mediatori che attraverso una diaconia di ascolto e sequela di Cristo, si conformeranno a Lui. Servire la Chiesa nella catechesi o nella scuola e nella cultura, sarà allora per il cristiano una forma di diaconia, che nell'educare, come lo stesso documento afferma, potrà rilanciare una nuova qualità di relazione con l'altro all'insegna della fiducia e dell'autenticità (EVB, 25ss).
Se l'educatore è un diacono
Il testo sugli Orientamenti e norme per il diaconato permanente in Italia sembra incoraggiare verso un attivo coinvolgimento dei diaconi nel mondo dell'educazione, sia auspicando l'eventuale insegnamento della religione cattolica nelle scuole (ON, 32) che richiedendo loro nell'esercizio del ministero «particolare cura per l'educazione dei giovani al vangelo della carità» (ON, 40). Adempiere significativamente a quest'impegno e missione, richiederà un percorso di discernimento e formazione, così come specifica il recente documento sugli orientamenti pastorali, nell'unica citazione dedicata ai diaconi, senza tuttavia precisare se permanenti o no, che troviamo inserita nel paragrafo finale del cap. 3, "Educare come cammino di relazione e fiducia": «Particolare importanza assume la formazione dei seminaristi, dei diaconi e dei presbiteri al ruolo di educatori. La vicinanza quotidiana dei sacerdoti alle famiglie li rende per eccellenza i formatori dei formatori e le guide spirituali che, nella comunità, sostengono il cammino della fede di ogni battezzato» (EVB, 34). Con brevi parole si afferma la necessità di formarsi al ruolo di educatori, riconoscendo, qualche riga prima il contributo di «tanti educatori che, in ogni stato di vita, con la loro testimonianza umile e quotidiana, hanno inciso in modo profondo sulla nostra maturazione».
Ci saremmo aspettati qualche parola in più, qualche ulteriore distinzione, ma anche un percorso di purificazione della memoria che non identifichi come "punti di debolezza e di sofferenza" i soli cammini di formazione dei catechisti, degli operatori pastorali e degli insegnanti di religione cattolica (cf. EVB, 53), ma sappia cogliere i punti di debolezza dei nostri seminari, della formazione affettiva e teologica dei candidati al sacerdozio, approfondendo inoltre il percorso del discernimento e formazione dei diaconi permanenti. Un'ultima nota consente inoltre di segnalare che i «percorsi di vita buona» che ricalcano gli ambiti approfonditi a Verona, anche nel riferimento alla fragilità umana che nel documento precedente trovava un'indicazione sui diaconi, in quest'ultimo contributo evidenzia soltanto l'apporto dei laici.
In realtà il diacono ha molto da dire su quella che possiamo definire diaconia educativa, contribuendo nella valorizzazione del ministero stesso dell'insegnamento nel suo doppio versante, catechetico e culturale. Quali ministri dell'annuncio che attingono a quella diaconia della Parola nella sua triplice scansione, kerigmatica, profetica e didascalica, essi mediano la necessità dell'annuncio, del dialogo con la storia e la cultura e di una rinnovata catechesi. Un adeguato discernimento dovrà favorire la consapevolezza della chiamata e responsabilità che in primis chiede ai diaconi di mostrarci il volto umile della Chiesa che con parole e gesti, annuncio e testimonianza, dichiara la sua passione per l'uomo, svelando la sua natura di servizio e mediazione, quel suo brillare di luce riflessa, quella che promana da Cristo. Educare e formare per un diacono diviene occasione propizia per immergersi nelle fragilità umane, edificando la Chiesa, avendo cura dei suoi figli, testimoniando la diaconia di Cristo.
"Giovanni Paolo II" di Foggia)
Note:
1 CEI, "Educare alla vita buona del Vangelo". Orientamenti pastorali dell'Episcopato Italiano per il decennio 2010-2020.
2 A. Sabetta, "Sul senso dello studiare teologia oggi", Prolusione in occasione dell'apertura dell'Anno Accademico presso l'ISSR Ecclesia Mater di Roma, 04-11 -2010.
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