Il linguaggio pedagogico di Gesù



Il diaconato in Italia n° 167
(marzo/aprile 2011)

SPIRITUALITÀ


Il linguaggio pedagogico di Gesù
di Carlo Maria Martini



Gesù parlava in parabole. Basta scorrere le pagine dei Vangeli per averne la prova. E dobbiamo presumere che non lo facesse raramente, a giudicare dal numero di parabole che gli evangelisti ci hanno trasmesso. Alcuni passi inducono addirittura a pensare che Gesù non parlasse alla gente in altro modo che in parabole. Si ha l'impressione che Gesù considerasse questo modo di esprimersi come il più adeguato alla capacità di comprensione degli ascoltatori e quindi il più adatto a trasmettere efficacemente il suo messaggio.
Ma perché privilegiare questo tipo di linguaggio? Per quale ragione preferirlo al linguaggio diretto e esplicito? E quali sono le sue caratteristiche specifiche? Quali gli obiettivi che consente di raggiungere? Chi sono, infine, i destinatari di questo parlare in similitudini? Interrogativi come questi aprono la strada a una riflessione di ampio respiro. Noi ci limiteremo a suggerire qualche considerazione di carattere generale, alla luce dei testi evangelici. Una cosa, in ogni caso, è opportuno precisare sin d'ora: quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta. Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi.
Il mondo occidentale sente fortemente questa fatica. Spesso il linguaggio usato per parlare di Dio è stentato e fiacco, a volte imbarazzato, a volte generico; ci si divide facilmente in verticalisti e orizzontalisti, tradizionalisti e progressisti, si formulano giudizi che, alla luce del Vangelo, risultano perlomeno inadeguati. Da qui il bisogno di approfondire, di mettersi alla scuola di Gesù, di lasciarsi guidare da lui alla ricerca di un linguaggio capace di «dire Dio». Come, dunque, Gesù parlava di Dio? E perché di solito ne parlava in parabole? Il fine ultimo del ministero di Gesù fu l'annuncio dell'evangelo del Regno, la manifestazione efficace della benefica sovranità di Dio, annunciata dalle Scritture, preparata dalla storia di elezione di Israele e destinata a tutte le genti.
«Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete all'evangelo» (Mc 1,15): con queste parole il Messia di Dio si presenta pubblicamente a Israele e al mondo. Ci attenderemmo a questo punto una descrizione chiara, accurata, aperta, luminosa del regno di Dio e di Dio stesso. Come non ipotizzare una predicazione di Gesù esplicita, ordinata, strutturata e proprio per questo convincente? La lettura dei testi evangelici non smentisce queste attese, ma neppure le soddisfa pienamente. Il modo con cui Gesù proclama l'evangelo agli uomini ci riserva qualche sorpresa. Anzitutto, la figura di Gesù appare caratterizzata principalmente dall'agire. In primo piano stanno le azioni di Gesù, il suo operare efficace, potente, carismatico: pensiamo soprattutto alle guarigioni, agli esorcismi, agli interventi straordinari in favore di persone in difficoltà. Il parlare di Gesù accompagna il suo agire e lo interpreta: la signoria di Dio è dimostrata attraverso le opere e illustrata attraverso le parole. Quanto alla predicazione vera e propria, essa non è sempre diretta e chiara; al contrario, non di rado appare come velata.
Il passo più sconcertante al riguardo è certo quello di Mc 4,11-12, in cui Gesù giustifica il suo parlare in parabole proprio con la necessità di nascondere la rivelazione del Regno, di impedire un accostamento immediato e diretto. Più volte Gesù parlò in modo allusivo ed enigmatico, «non apertamente», attraverso il velo delle similitudini: egli diceva e non diceva, svelava e nascondeva, manifestava e occultava. Questo è precisamente il punto che ci interessa: perché Gesù usava un simile linguaggio? Perché non era più esplicito, non diceva apertamente e accuratamente tutto quello che sapeva? Potrà sembrare strano, ma per annunciare autenticamente il Vangelo è necessario in qualche misura velarlo.
La constatazione che Gesù non facesse seguire alle parabole la spiegazione (solo i discepoli ne erano in alcuni casi beneficiati, ma sempre in privato) ci impedisce di considerare le parabole strumenti didattici, esempi che conducono l'ascoltatore a un insegnamento espresso poi in termini più concettuali. La parabola di Gesù non sfocia in una spiegazione piana ed esplicita, magari introdotta dalla formula: «Questo racconto ci insegna che...». La parabola di Gesù mantiene tutta la sua carica di enigmaticità, lascia all'ascoltatore il compito di comprenderla, lo interpella e lo costringe a interrogarsi, lo coinvolge in prima persona e lo impegna alla ricerca del senso. L'esortazione che spesso risuona infatti è la seguente: «Chi ha orecchie per intendere, intenda», cioè «chi è in grado di capire, cerchi di capire». Gesù racconta parabole non certo obbedendo a schemi prefissati ma, al contrario, sull'onda della sua emozione interiore, sospinto dal bisogno di comunicare il mistero di Dio a coloro che gli stanno davanti.
Le parabole sorgono dal cuore di Cristo, dalla sua passione per Dio e dal suo amore per l'uomo, dal bisogno impellente di svelare adeguatamente il volto del Padre, il segreto della sua opera di salvezza, la potenza del suo Regno e le conseguenze per la vita degli uomini. Abbiamo così toccato il punto essenziale. La peculiarità del linguaggio parabolico appare fortemente legata alla persona stessa di Gesù. Precisando meglio, diremo che tale peculiarità deriva dalla conoscenza di Dio che Gesù possiede e dalla sua attenzione per l'uomo. Nessuno più di lui è abilitato a rivelare il volto di Dio, la sua potenza, la sua volontà; ma come non tenere conto delle disposizioni d'animo di chi ascolta, della situazione personale degli uditori, della loro fatica a capire, della loro tendenza a fraintendere?
Quando consideriamo le circostanze in cui Gesù racconta le parabole, ci accorgiamo di quanto egli sia attento ai suoi uditori. Da un lato, dunque, le parabole sono un vero insegnamento; esse parlano di Dio, della sua opera, delle conseguenze per la vita degli uomini, della risposta che Dio si attende; dall'altro, le parabole sono un atto di cortesia, di rispetto della libertà degli uomini, di condiscendenza, quasi di tenerezza. Gesù è un vero maestro anche per questo. Egli conosce il cuore degli uomini e perciò non ha fretta, sa adeguarsi al passo dell'ascoltatore, accetta anche che questi faccia fatica a capire, attende che si ricreda e che riveda alcune posizioni. Intanto si ingegna di offrire un insegnamento che per lo meno susciti degli interrogativi, che faccia breccia in cuori induriti e che dia un orientamento sicuro ai cuori incerti e smarriti; un insegnamento, insomma, che permetta di compiere un primo passo e disponga a un cammino successivo. I ritmi della conoscenza che proviene dalla fede sono lenti.
Per questo la rivelazione va anche nascosta, velata. La libertà dell'uomo non è in grado di reggere tutto il peso della rivelazione di Dio. Così le parabole sgorgano dal cuore di Gesù sotto la spinta incalzante dell'urgenza dell'evangelo; esse sono spontanee, non artificiali, nascono dalla vita stessa. Le parabole sono, in questa prospettiva, uno dei frutti più belli del mistero dell'incarnazione, la frontiera cui il linguaggio viene spinto dal Figlio di Dio, affinché risulti adatto a comunicare il mistero del Regno nel rispetto della concreta situazione dell'uomo.




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