Il diaconato in Italia n° 167
(marzo/aprile 2011)
EDITORIALE
Maestro è chi insegna a sperare
di Giuseppe Bellia
Educare è un'arte, è una missione, è, appunto, una paideia. Una parola, questa, nobile che ha traversato secoli, civiltà, culture e che oggi è divenuta muta e quasi arcana perché, in un'epoca di assenza di padri e di maestri, sembra solo evocare reminiscenze lontane, bibliche e filosofiche cariche di struggenti, antiche suggestioni che non riescono però ad avere alcuna effettiva presa sul mondo della scuola e su quello giovanile in particolare. Ci si chiede come si è arrivati a questo punto.
Scriveva Chesterton nel lontano 1932: «L'età moderna è una età anti-educativa. È un'età in cui per la prima volta si è stabilito il diritto dello Stato di educare i figli dei suoi cittadini. Ed è anche l'età in cui per la prima volta è negato il diritto del padre di famiglia di educare i suoi figli. È l'epoca in cui gli sperimentatori desiderano insegnare a tutti i costi ogni cosa a un piccolo e spensierato birbante, dalla criminologia all'equilibrio cosmico. Ma è anche l'epoca in cui volonterosi filosofi mettono in dubbio se sia giusto insegnare alcunché a qualcuno: persino di evitare di avvelenarsi o di cadere dai precipizi».
Indubbiamente il caustico scrittore inglese voleva polemicamente trasmettere una visione negativa della scuola pubblica ma coglieva nel segno quando individuava il vincolo essenziale che decide di ogni seria ed efficace impresa pedagogica nel legame vitale che intercorre tra educazione familiare e scuola senza del quale viene meno ogni possibilità di orientazione e di crescita del giovane da educare. Lo stato di abbandono in cui è ormai precipitata l'impresa pedagogica nel nostro paese mostra l'educazione come un cantiere in disarmo, abbandonato dalle istituzioni preposte e disertato dai tradizionali operatori. Famiglia e scuola sembrano aver smarrito il loro compito educativo perché nello spazio di vent'anni hanno modificato la loro natura trasformandosi da luoghi del buono e onesto vivere in angusti e forzati corridoi di passaggio; la vita s'impara altrove, media e scandala docent. E si trova sempre un prelato di turno pronto ai distinguo e prono a fornire coperture paludate ai vizi dei potenti.
Da qui il bisogno di riscoprire la questione educativa perché l'educazione, come ricorda Benedetto XVI, è un'«esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa che si colloca nel cuore della sua missione, volta a far sì che ogni persona possa incontrare e seguire il Signore Gesù, Via che conduce all'autenticità dell'amore, Verità che ci viene incontro e Vita del mondo». Anzi per il papa «la sfida educativa attraversa tutti i settori della Chiesa ed esige che siano affrontate con decisione le grandi questioni del tempo contemporaneo: quella relativa alla natura dell'uomo e alla sua dignità - elemento decisivo per una formazione completa della persona - e la "questione di Dio", che sembra quanto mai urgente nella nostra epoca».
Anche nella nostra Chiesa l'impegno educativo sta al centro dell'interesse pastorale dei nostri vescovi che la considerano, così scrivono, come la sfida più drammatica e la scommessa più indifferibile del decennio appena entrato. Naturalmente la scuola non può non attirare l'attenzione anche di quanti, senza essere attratti dalla fede cristiana, sono responsabilmente coinvolti, a vario titolo, nei processi educativi. Le coscienze più avvertite si rendono conto che, dopo il ventesimo secolo, dopo le esperienze fallimentari del secolo breve e triste, educare e accompagnare le giovani generazioni verso l'età adulta è diventata la questione decisiva del nostro tempo, soprattutto per la nostra cultura occidentale percorsa da segni di decadenza. Si deve però ricordare che il momento che viviamo, per quanto intristito da torbide inquietudini, da squallide vicende, da ignavie morali e da sudditanze religiose che non risparmiano nessuno, rimane pur tuttavia un'occasione di grazia da valorizzare per annunciare al mondo che la speranza di Cristo è ancora vera e possibile. Potrebbe essere l'occasione buona per cercare di riscoprire un nuovo ideale di paideia cristiana.
Si dovrà certo far tesoro di ogni luce, di ogni ricchezza, ma a noi è richiesto di valorizzare la nostra storia che, lo si voglia o no, affonda le sue radici nella traditio, nella consegna di generazioni cristiane e di figure profetiche che ci hanno tramandato le risorse di un patrimonio d'intelligenza di fede che ci spinge a ripensare e riproporre un nuovo umanesimo. Perché questo accada bisogna che credenti e non credenti, e quanti hanno a cuore la crescita personale e comunitaria dei giovani nella società, si ritrovino su alcuni principi indisponibili come il primato di una libera e severa ricerca della verità che si traduce in un coerente primato dell'etica e quindi dell'educazione.
Per il credente in particolare luogo performativo di ogni sana pedagogia è la crescita nella sua personale relazione con Dio. Giustamente ricorda il papa che se non è viva e vissuta con crescente intensità, manca a tutte le altre relazioni la possibilità di trovare la loro giusta forma. Senza fanatismo si potrebbe dire che questo vale anche per la società, per l'umanità come tale. «Anche qui, se Dio manca, se si prescinde da Dio, se Dio è assente, manca la bussola per mostrare l'insieme di tutte le relazioni per trovare la strada, l'orientamento dove andare. Dio! Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente» (L'Osservatore Romano, 26 luglio 2009, p. 8).
Quali le caratteristiche del pedagogo cristiano, quali i tratti della sua arte di educare? Libri e riviste abbondano di analisi e di consigli, spesso gravati da sensibilità di parte e ispirate dall'emergere di sensibilità à la page e francamente si resta perplessi da tanto scintillio di sapere gridato e programmato che non ci aiuta a distinguere le cose vili da quelle preziose e soprattutto non insegna a sperare. Riandando con la memoria agli antichi maestri si resta colpiti dal sapido buon senso, nutrito di semplice fede e genuina sapienza biblica di un Giovanni di Salisbury, vescovo di Chartres (XII secolo), che condannava i maestri che esibivano se stessi e volendo dar prova della propria erudizione ottenevano solo di ottundere le facoltà intellettuali dei loro studenti: consigliava così l'umiltà e l'attenzione all'altro come primo viatico di ogni vero maestro. L'erudizione senza la sapienza del cuore che viene da un sentire mite e umile appreso dall'unico vero maestro (Mt 11,29), diviene un assordante silenzio dove tutto si riduce a giochi di parole, a un argomentare borioso e pedante che ricerca l'applauso e non l'assenso libero dell'altro.
La pedagogia dell'ascolto tramandataci dai sapienti scribi d'Israele ci aveva trasmesso, tra continuità e discontinuità con le scuole del periodo ellenistico, una misura progressiva d'insegnamento fecondo dove l'esperienza vitale del maestro coincideva con la sua dottrina e con la sua capacità di presa su alunni e discepoli. Una regola pedagogica semplice, modellata sull'insegnamento di Cristo che svelando come l'inaccessibile sapienza divina era donata dal Padre ai piccoli e non ai dotti (Lc 10,21) si limitava a consigliare che il vero maestro, come il vero genitore, deve tendere a essere di esempio con la sua condotta senza imporre leggi. Non è questo del resto l'insegnamento costante tramandatoci anche dai sobri detti dei padri del deserto che insegnavano a sperare?
E qui una riflessione a parte meriterebbe il ruolo d'insegnante di religione svolto nella nostra Chiesa da un certo numero di diaconi. Mi rivolgo a quanti hanno inteso il ministero come servizio e non come via di accesso a una sistemazione lavorativa di stampo clericale, questi di sicuro non leggeranno queste pagine dimesse e leali. La diaconia della parola è cosa grande e, attraverso il kerygma, la catechesi e la didascalia, abbraccia la stessa missione della Chiesa e si rivolge prevalentemente agli ultimi. Su questa emergenza educativa, non avrebbero da dire cose essenziali e sensate quanti coniugano la diaconia ministeriale con l'esperienza pedagogica? Perché in tutti questi drammi migratori s'incontrano così pochi diaconi impegnati nell'opera di accoglienza e di sostegno di profughi e rifugiati? In un manuale, redatto da Martino da Fano nel 1255 per quanti avevano incarichi d'insegnamento, si legge un promemoria delle domande che il buon Dio farà al docente, quando questi si presenterà davanti a lui: «A qual fine hai studiato?», «Come hai insegnato?», «Come hai pregato?», «Sei stato zelante?». Un onesto pedagogo si dovrebbe ricordare che «non è la toga che fa il dottore, né la posizione più elevata che fa il maestro», ma il suo sapere e il suo modo di trasmetterlo, consegnando speranza a quanti l'ascoltano. Non c'è qui per ogni educatore un semplice antidoto contro lo scadimento dell'educazione?
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