La combinazione tra una delle parabole più conosciute e più utilizzate del primo vangelo, quella dei talenti, e un'altra pagina particolarmente conosciuta del primo Testamento, l'elogio della donna di valore, è illuminante. La parabola insiste su una regola del tutto evidente già solo per il buon senso: ognuno deve mettere a frutto ciò che è e ciò che ha, mentre l'esaltazione della buona padrona di casa insiste sulla capacità di vivere la vita in modo incisivo ed efficace. Entrambi i testi sono espressione della grande tradizione sapienziale attraverso cui Israele professa l'amore di Dio per la vita. VITA PASTORALE N. 10/2011
XXXIII Domenica del Tempo ordinario
Pr 31,10-13.19-20.30-31
1Ts 5,1-6
Mt 25,14-30
LA FIDUCIA REGOLA
I RAPPORTI CON DIO
Il comportamento dei primi due servi della parabola come, in fondo, quello della donna di valore sono stati spesso interpretati come una esaltazione del capitalismo liberista. Oppure, per non cadere in questa trappola, si è preferito dare di essi un'interpretazione moraleggiante: tutti abbiamo ricevuto qualcosa, dovremo renderne conto e virtuoso è colui o colei che fa bene il suo dovere. Oggi, invece, la tendenza a psicologizzare il messaggio evangelico ci spinge ad attribuire invece alla parabola una finalità incoraggiante: tutti abbiamo delle qualità, Dio ha dato a ciascuno qualche "talento" e tutti siamo, in fondo, "diversamente abili".
Gesù non intende certo legittimare l'imprenditoria o esaltare il neoliberismo, affermando che chi è ricco diventa sempre più ricco e chi è povero diventa sempre più povero, come non mira a sostenere psicologicamente la nostra capacità di stare al mondo in modo gratificante e produttivo. Piuttosto, egli intende "sottoporre a giudizio severo" le relazioni che gli uomini hanno con Dio. La sua predicazione non mira innanzi tutto a proporre modelli di comportamento, ma a rivelare il volto di Dio. Il dialogo stereotipato tra il padrone e i primi due servi, toglie alloro comportamento qualsiasi rilievo e qualsiasi pathos e orienta con forza l'attenzione verso il terzo servo, che si è comportato diversamente dagli altri due. Del resto, i primi due servi hanno fatto esattamente quello che era previsto dal diritto romano: curare gli interessi del signore quando egli era assente. Per quanto riguarda il terzo servo, invece, non sembra che egli abbia agito male: non ha saputo rischiare, è vero, ma in fondo è stato capace di tutelare il denaro del suo padrone. Perché dunque un giudizio così duro e impietoso? Dov'è finito il Dio di misericordia che Gesù ha annunciato se invece Dio è colui che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso? Sono parole degne di un tiranno che fa dell'arbitrio il suo diritto.
Esse trovano il loro giusto significato se vengono collocate nel quadro generale della predicazione di Gesù e della sua visione di Dio. Credere nel regno significa credere che la semina produrrà molto di più di quanto ci si possa aspettare dal seme; significa credere che la pesca sarà abbondante e farà rompere le reti. Questa è la logica del regno, questa è dunque la logica che deve regolare i rapporti tra gli uomini e Dio. Non la paura, ma la fiducia. Neppure, però, l'appiattimento sul presente, ma l'apertura al futuro. I primi due servi dimostrano di aver capito che il loro signore è proteso verso il futuro, che ciò che a lui sta a cuore chiede apertura, coraggio e lungimiranza. Essi hanno maturato il giusto rapporto nei confronti del signore. Il terzo servo, invece, rimane bloccato nella conservazione del presente, di ciò che ha in mano. I primi sanno che credere significa vivere nel "timor di Dio" e questo rende la loro fede aperta alla vita e al futuro; la fede osservante del terzo servo è radicata nella paura e non è in grado di capire che la vita è aperta al regno. Per questo, suo destino sono le tenebre.
È significativo che oggi il brano finale del libro dei Proverbi, dedicato alla donna di valore, venga spesso utilizzato per esaltare le qualità imprenditoriali delle donne, la loro capacità multitasking che le mette in grado di far funzionare l'economia familiare e di impegnarsi in attività economiche e commerciali. Che oggi tutti, in nome delle neuroscienze, della psichiatria o della sociologia concordino nell'affermare che le donne sono in grado, per natura e per storia ma, potremmo pure dire, per amore e per forza, di integrare nel sistema della vita una pluralità di dimensioni, attività, interessi, impegni è un fatto su cui poco si può obiettare. Né si tratta di un valore aggiunto acquisito in epoca recente se già uno scritto antico come il libro dei Proverbi riconosce che la vita delle donne tiene insieme più dimensioni, più interessi, più attività.
Il testo, però, non è un elogio di quella donna virtuosa che ogni mamma, in fondo, desidererebbe per il proprio figlio maschio. Per capirne il senso è decisivo il riferimento finale al "timore di Dio". L'inno esalta "donna-sapienza", cioè la capacità di imprimere alla vita vigore ed, efficacia e di ricavare così da essa ogni soddisfazione. È quanto, in termini assolutamente laici, abbiamo ascoltato con commozione dalle labbra di Steve Jobs, il mitico fondatore di Apple, nel momento della sua morte. Come credenti, dovremmo ricordare più spesso che nella differenza tra paura di Dio e timore di Dio si gioca il senso della vita, il volto stesso di Dio.
(commento di Marinella Perroni, docente di N.T.)
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XXXIII Domenica del Tempo ordinario (A)
ANNO A - 13 novembre 2011